Dopo 20 anni dall’arrivo degli Stai Uniti, la mattina del 15 agosto 2021 i Talebani sono entrati a Kabul proclamando la nascita del nuovo “Emirato Islamico dell’Afghanistan”, usando lo stesso nome del Paese prima dell’arrivo degli americani nel 2001.

A soli 24 giorni dalla presa della città, e la successiva autoproclamazione dell’Emirato, i talebani hanno annunciato il nuovo Governo.

Con tutta evidenza, ci troviamo dinnanzi ad un gruppo insurrezionale che ha preso le armi contro il Governo effettivo e legittimo in carica per finalità politiche ed al fine di sostituirsi al medesimo.

Ma l’auto-proclamato Stato Islamico da parte degli “Insorti” Talebani può essere effettivamente considerato come un soggetto di diritto internazionale titolare di autonomi diritti ed obblighi mentre la rivoluzione è ancora in corso?

Per poter rispondere a tale quesito occorre, preliminarmente, fare alcune precisazioni.

In primo luogo, deve evidenziarsi che il Diritto internazionale riconosce quali soggetti di diritto dotati di personalità giuridica, oltre che gli Stati – per la cui costituzione, in estrema sintesi, devono sussistere i presupposti dell’ indipendenza, della esistenza di una popolazione permanente e di un governo effettivo – anche alcuni enti o organizzazioni collettive che, pur carenti di taluni requisiti propri degli Stati, sono dotati di effettività ed indipendenza rispetto ad altri ordinamenti giuridici.

Tra questi rientrano anche i Movimenti insurrezionali che aspirano a sostituirsi al Governo al potere.

Ma chi sono i Movimenti insurrezionali?

I Movimenti insurrezionali sono entità organizzate che conducono la propria lotta contro il Governo in carica ad un livello di intensità tale da emanciparsi, almeno temporaneamente, dal controllo dello Stato colpito dall’insurrezione.

Affinché un gruppo insurrezionale ottenga uno status nel diritto internazionale è necessario che sia dotato di un’organizzazione stabile idonea a gestire le relazioni internazionali ed abbia un controllo effettivo sulla popolazione e sul territorio.Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

Dunque, se il Movimento avrà successo, la sua soggettività andrà a consolidarsi con quella dello Stato di cui ha preso il potere e si trasformerà nel nuovo Governo mentre, in caso contrario, perderà la soggettività e tornerà ad essere considerato come un mero gruppo di ribelli.

Oltre che temporanea, la soggettività dei movimenti insurrezionali è anche parziale nel senso che agli insorti, che effettivamente controllano una parte di territorio, si applicano soltanto alcune delle norme consuetudinarie che si applicano agli Stati quali, ad esempio, quelle sulla conclusione dei trattati internazionali e sulle immunità di organi di stati stranieri.

Ebbene, sorge spontaneo chiedersi se in tali casi gli altri Stati possano intervenire a favore del governo legittimo destituito con la forza.

La risposta è affermativa.

Nel diritto internazionale si ritiene, comunemente, che gli altri Stati possano intervenire a favore ed in sostegno del governo legittimo trattandosi di ordinaria cooperazione tra gli Stati.

Al contrario, ogni forma di assistenza ai “ribelli” è vietata in quanto viene considerata come una forma di interferenza indebita negli affari interni di un altro Stato.

È naturalmente molto complesso identificare l’esatto omento in cui i movimenti insurrezionali acquistano la personalità giuridica internazionale proprio a causa della effettiva difficoltà di riscontrare i presupposti sopra indicati.

Ora, tornando al più recente caso dell’autoproclamato Emirato Islamico, alla luce di tutto quanto detto, appare evidente che la mera “auto-proclamazione” da parte dei Talebani non abbia alcuna conseguenza giuridica e, come tale, non sia atto idoneo e sufficiente a trasformare il Movimento Insurrezionale nel nuovo Governo dello Stato consolidando la sua soggettività con quella dello Stato.

D’altra parte, ci si chiede se, invece. il riconoscimento da parte degli altri Stati – di cui in questi giorni si sente parlare spesso – possa avere delle conseguenze giuridiche e, dunque, possa influire sulla acquisto della personalità giuridica, come nel caso che ci occupa, del Movimento Insurrezionale al punto da incidere nella consolidazione della soggettività del Movimento con quella dello Stato.

Cos’è il “Riconoscimento internazionale”?

Il riconoscimento è un atto unilaterale attraverso il quale uno Stato esprime la propria opinione sull’esistenza di un fatto giuridico internazionale (nel caso di specie, il riconoscimento dell’esistenza di un Movimento insurrezionale).

Secondo i principi consolidati del diritto internazionale, il riconoscimento ha un valore meramente dichiarativo della personalità giuridica internazionale e non anche “costitutiva” posto che l’acquisizione della soggettività di uno Stato ovvero di un Movimento insurrezionale è un fatto oggettivo che si verifica solo in presenza dei requisiti che sopra abbiamo descritto, come anche confermato dalla Commissione d’Arbitrato durante la conferenza per la Pace in Jugoslavia nel 1992.

La concessione del riconoscimento incide per lo più sulla presenza dell’ente nella vita delle relazioni internazionali, ossia della sua effettiva partecipazione alla Comunità internazionali attraverso l’attivazione di rapporti amichevoli, di cooperazione e di collaborazione, nel rispetto dei principi fondamentali della Comunità, quali il rispetto dei diritti umani.

Insomma, anche a fronte del riconoscimento da parte degli altri Stati della Comunità Internazionale, non si avrebbe alcuna conseguenza dal punto di vista della soggettività internazionale del gruppo di Insorti trattandosi, con tutta evidenza, di un atto non sufficiente alla “costituzione” di un nuovo soggetto di diritto internazionale.

In conclusione, dunque, sarà necessario attendere l’evoluzione delle vicende in corso per stabilire se, alla luce dei principi internazionalistici, l’autoproclamato Governo talebano consoliderà la sua soggettività con quella dello Stato di cui ha preso il potere e si trasformerà nell’effettivo nuovo Governo.

Eleonora Pintus, Avvocato

Patrick Zaki, attivista e ricercatore egiziano impegnato nella lotta per i diritti umani, il 7 febbraio 2020, è stato prelevato dagli agenti dell’Agenzia di sicurezza nazionale egiziana all’aeroporto del Cairo e arrestato.

Al momento dell’arresto Zaki stava frequentando un master internazionale all’università di Bologna ed era attivista presso l’organizzazione non governativa “Egyptian initiative for personal rights”, una delle poche organizzazioni indipendenti per i diritti umani ancora attiva in Egitto.

Ebbene, dopo più di un anno dalla sua incarcerazione, Patrick Zaki non è stato sottoposto ad alcun processo e la sua detenzione cautelare è stata addirittura prolungata di ulteriori 45 giorni sebbene la sua situazione di salute, sia fisica – in quanto sottoposto ad atti di tortura – che psicologica, come riferito dai legali, appaia particolarmente critica.

Dal punto di vista della diplomazia, sono stati numerosi i tentativi diretti ad ottenere una immediata reazione da parte delle autorità egiziane: il 18 dicembre 2020, il Parlamento europeo, a seguito dell’approvazione di una proposta di risoluzione comune sulle violazioni dei diritti umani in Egitto, ha invitato gli Stati membri a prendere in considerazione la possibilità di adottare misure restrittive mirate nei confronti di funzionari egiziani responsabili delle violazioni più gravi nel Paese.

Gli stessi deputati dell’Europarlamento hanno chiesto la scarcerazione immediata e incondizionata di Zaki nonché di altri prigionieri politici, oltre ad aver evidenziato l’esigenza di una reazione diplomatica comune e coesa da parte dell’Unione.

Allo stesso modo, anche il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite in una nota diplomatica ha manifestato la più profonda preoccupazione “per la traiettoria assunta dai diritti umani in Egitto” tanto che gli stessi Stati firmatari, tra cui gli Stati Uniti e l’Italia, hanno chiesto allo Stato egiziano di porre fine ad ogni sorta di persecuzione di attivisti, oppositori politici, giornalisti ed il loro immediato rilascio.

I tentativi diplomatici, ad oggi, non hanno sortito i risultati auspicati.

Ecco che, però, dove non arriva la diplomazia, interviene il diritto.

Le gravi condizioni in cui versa l’attivista Patrick Zaki in ragione del regime di detenzione cui è sottoposto nel carcere di massima sicurezza di Tora, noto a livello internazionale per le condizioni degradanti ed inumane, oltre che per gli atti di violenza in ragione dei continui abusi perpetrati ai danni dei detenuti, configurano il ricorrere di una circostanza di eccezionale interesse del nostro Paese di per sé idonea alla concessione della cittadinanza.

Il comma 2 dell’articolo 9 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, dispone, infatti, che: “Con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato e previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro degli affari esteri, la cittadinanza può essere concessa allo straniero quando questi abbia reso eminenti servizi all’Italia, ovvero quando ricorra un eccezionale interesse dello Stato”.

Così, il 14 aprile 2021, è stata discussa la mozione sulla concessione della cittadinanza italiana a Patrick Zaki e sulle iniziative per la sua liberazione, successivamente approvata dalla Camera con 358 voti a favore e 30 astenuti.

La mozione chiede al Governo il conferimento della cittadinanza italiana; domanda, questa, sulla quale l’esecutivo non si è espresso ufficialmente sebbene, al contempo, si stia adoperando con maggiore vigore in tutte le sedi europee e internazionali perché l’Egitto provveda al rilascio di Patrick George Zaki.

Ma quali sono i vantaggi che, sul piano pratico, determinerebbe l’eventuale riconoscimento della cittadinanza?

Anzitutto, la prima forma di tutela “naturale” ontologicamente connessa alla cittadinanza è rappresentata dalla protezione consolare.

Con ciò si intende l’aiuto fornito da un Paese ai suoi cittadini che vivono o si trovano all’estero e hanno bisogno di assistenza, anche, come nel caso di specie, nelle ipotesi di arresto o detenzione, come espressamente sancito dalla Convenzione di Vienna del 1963.

Nel caso della protezione consolare, lo Stato d’origine coadiuva i propri cittadini nel far valere e tutelare i propri diritti in base all’ordinamento giuridico del Paese in cui questi si trovano.

In particolare, il riconoscimento della protezione consolare prevede che i funzionari dell’Ambasciata o del Consolato rendano visita al detenuto, diano avvisi alla famiglia di questi, lo assistano nella ricerca di un legale ovvero intervengano al fine di dar luogo alle operazioni di trasferimento in Italia qualora il connazionale sia detenuto in Paesi aderenti alla Convenzione di Strasburgo del 1983 sul trasferimento dei detenuti o con cui siano in vigore accordi bilaterali.

Tuttavia, non tutti gli Stati membri dell’UE hanno un’ambasciata o un consolato in ogni paese terzo.

Ebbene, in tali casi, ai sensi dell’articolo 20, paragrafo 2, lettera c), e dall’articolo 23 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dall’articolo 46 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE è consentito al cittadino di uno Stato europeo il diritto di chiedere l’aiuto dell’ambasciata o del consolato di qualsiasi altro Stato membro dell’Unione.

In tali casi, infatti, gli Stati membri sono obbligati ad assistere i cittadini dell’UE che non hanno rappresentanza alle stesse condizioni dei propri cittadini.

Ora, se la protezione consolare mira a tutelare il cittadino in caso di arresto o detenzione, è automatico chiedersi, invece, quali siano gli strumenti di tutela riconosciuti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni e dagli usi internazionali in tutti i casi in cui, ad esempio, un cittadino venga condannato in uno Stato terzo.

Tra questi, occorre anzitutto menzionare lo strumento dell’estradizione che, nell’ambito dell’ordinamento interno, è regolato dall’art. 13 c.p.

L’estradizione, è un procedimento in forza del quale un soggetto viene trasferito da uno Stato all’altro al fine di essere sottoposto ad un processo penale.

Il ricorso all’estradizione è sottoposto ad alcuni limiti che attengono al soggetto che deve essere estradato, al tipo di reato per cui l’estradizione è richiesta, oltre che al tipo di pena che può essere applicata nello Stato richiedente o in quello ricevente.

Quanto al primo limite, oltre che nella norma in esame, gli artt. 10 e 26 della Costituzione sanciscono il divieto di estradizione del soggetto che rivesta la qualità di cittadino o dello straniero per i reati politici, nonché nel caso in cui il reato sia punito con pena capitale.

Ebbene, fatti salvi i suddetti limiti, e purché non sussista un espresso divieto, l’estradizione può essere concessa anche quando così è disposto da convenzioni internazionali tra gli Stati e dagli stessi ratificate.

Tornando al caso di specie, occorre evidenziare che non sussiste un trattato bilaterale tra l’Italia e l’Egitto in materia di estradizione che consenta l’automatica estradizione di un cittadino italiano o egiziano dall’Italia verso l’Egitto o viceversa.

Da ciò consegue che, anche nell’ipotesi in cui dovesse essere riconosciuta la cittadinanza all’attivista Zaki non sussisterebbero, in ogni caso, le condizioni per procedere alla sua estradizione.

Tuttavia, ciò non significa che non possa essere richiesto e concesso il rilascio del medesimo.

Infatti, costituisce consolidata prassi internazionale quella per cui, pur in assenza di un accordo internazionale, sulla base del principio di reciprocità, uno Stato concede l’estradizione nell’ipotesi in cui lo Stato richiedente, in circostanze analoghe, abbia fatto o si impegni a fare altrettanto.

D’altra parte, un ulteriore strumento azionabile dal nostro Paese – che non deve essere confuso con quello dell’estradizione – è il meno noto “Trasferimento delle persone condannate”.

Tra Italia e Egitto, infatti, è attualmente in vigore, a partire dall’anno 2013, un accordo bilaterale sul trasferimento delle persone condannate in forza del quale può essere richiesto che i cittadini italiani condannati in Egitto, nonché ai cittadini egiziani condannati in Italia che facciano richiesta di scontare la pena nel proprio Paese d’origine vengano ivi trasferiti.

In conclusione, alla luce del breve quadro sopra delineato, sono evincibili i numerosi benefici connessi al riconoscimento e concessione della cittadinanza all’attivista e ricercatore Patrick Zaki, tanto sul piano della diplomazia, quanto, eventualmente, sul piano delle azioni giudiziarie italiane.
Sebbene, infatti, gli strumenti di tutela siano limitati e spesso criticati a causa della loro scarsa efficacia, in casi come questo possono costituire indubbiamente una valida alternativa ed un’ancora di salvezza.Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

Eleonora Pintus, Avvocato