PNRR e sport: occasione di riqualificazione urbana

In seguito alla crisi globale derivata dalla pandemia da Covid-19, che ha travolto l’intero pianeta, la Commissione europea ha lavorato ad un piano di ripresa dedicato a tutti i paesi membri dell’Unione europea, volto a sanare i danni economici e sociali derivati dall’emergenza sanitaria. 

Con questi presupposti è nato lo strumento finanziario denominato NextGenerationEU, dedicato al finanziamento di interventi finalizzati allo sviluppo economico e alla crescita sostenibile dei paesi colpiti dalle difficoltà generate dal coronavirus. 

Il principale mezzo attuativo di questo pacchetto di finanziamenti europei è il RRF, Dispositivo per la ripresa e la resilienza, che ha consentito agli stati europei di presentare un proprio piano di investimenti, in linea con i principi del NGEU. 

L’Italia, uno dei paesi più colpiti dalla crisi economica, ha quindi progettato e dato vita al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), un piano che prevede sei missioni:  

  1. digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo, 
  2. rivoluzione verde e transizione ecologica,
  3. infrastrutture per una mobilità sostenibile,
  4. istruzione e ricerca,
  5. inclusione e coesione,
  6. salute.

La missione n.5, suddivisa in tre componenti, è fortemente legata al mondo dello sport, strumento di coesione sociale, e punta essenzialmente sulla realizzazione di nuove strutture e sulla ristrutturazione del patrimonio impiantistico sportivo esistente, mirando alla sostenibilità e alla socializzazione come mezzi per la riqualificazione di aree urbane destinate alla collettività.Elena Falqui, Ingegnere

L’investimento relativo all’edilizia sportiva si articola in due avvisi, dedicati a due gruppi denominati cluster 1/2 e 3, che differiscono per la tipologia dei Comuni destinatari e la configurazione delle proposte.  

Il cluster 3 è quello rivolto ai Comuni italiani che presentino progetti accompagnati dalla sponsorizzazione di una federazione sportiva, che manifesti e sottoscriva il proprio interesse negli interventi, al fine di garantire una maggiore promozione e una condivisione di livello nazionale, grazie alla partecipazione di enti che assicureranno la funzionalità degli impianti promossi. 

La manifestazione di interesse pubblicata dal governo, e destinata ai Comuni italiani, prevede un importo finanziabile pari a Euro 162.000.000,00, ed è destinata a progetti riguardanti impianti di proprietà pubblica, con un tetto di contributo di 4 milioni di euro a intervento; il bando indica la possibilità di individuare un singolo intervento, sia per i presentanti domanda, che per le Federazioni sportive, che possono esprimere il loro interesse su un unico progetto. Le domande di partecipazione dovevano essere consegnate entro il 22 aprile 2022, tramite invio alla pec del governo dedicata, con una prima descrizione dell’intervento proposto e delle finalità prefisse, l’indicazione dei soggetti coinvolti e della loro capacità economica, oltre ad un cronoprogramma per la realizzazione delle opere (per un approfondimento clicca il link: https://www.sport.governo.it/media/3380/cluster-3-avviso-pubblico-di-invito-a-manifestare-interesse.pdf). 

La procedura per l’ammissibilità delle istanze sarà improntata alla definizione di un quadro nazionale omogeneo, impostato sul censimento delle strutture sportive attualmente esistenti sul territorio, individuando quindi gli interventi che possano maggiormente rispondere alle finalità prescritte dal PNRR, per garantire la massima riposta in termini di ricrescita economica e sociale. 

I progetti che si aggiudicheranno il finanziamento avranno l’obbligo di andare in appalto e aggiudicazione entro il 31 marzo 2023 e dovranno concludersi con la fine lavori entro il 31 gennaio 2026. 

La riqualificazione dell’impiantistica sportiva, oltre alla creazione di nuovi poli dedicati allo sport che riconfigureranno e trasformeranno grandi aree cittadine, recuperando e valorizzando aree urbane in disuso, avrà inoltre un importante impatto relativamente all’opportunità di poter programmare e organizzare manifestazioni di vario livello da parte dei vari comuni italiani, che potranno contare su strutture adeguate sotto ogni profilo. 

Basti pensare che solo nel nostro comune di Cagliari sono presenti più di 30 impianti dedicati allo sport di proprietà pubblica con gestione diretta, convenzionata o in concessione, ma che la maggior parte di questi versa in pessime condizioni e ha urgente necessità di ristrutturazioni importanti e, punto fondamentale, non sono a norma per l’apertura al pubblico durante le manifestazioni di qualsiasi entità  poiché non certificate per la prevenzione degli incendi (Certificato di Prevenzione Incendi – CPI).Elena Falqui, Ingegnere

Gli eventi sportivi svolti nell’ultimo anno hanno avuto un riscontro molto positivo da parte del pubblico che, dopo le restrizioni degli ultimi anni, ha accolto con entusiasmo la recente riapertura a capienza piena degli impianti sportivi, come dimostrato, ad esempio, dagli Internazionali d’Italia di tennis di maggio di quest’anno, che hanno superato il record assoluto di partecipazione di spettatori della storia del torneo. 

Gli italiani hanno necessità di riscatto, di ripartenza e di socialità e lo sport è sicuramente uno dei mezzi principali per garantire questo processo e le manifestazioni di alto livello sono uno strumento per una crescita economica.

Elena Falqui, Ingegnere

Mi sono laureata nel 2007 in Tecnologie per la Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali e nel 2010 in Ingegneria Edile, col massimo dei voti presso la facoltà di Ingegneria e Architettura di Cagliari; ho conseguito il Master di II livello in Progettazione di impianti sportivi presso la Sapienza a Roma nel 2011.
Ho svolto inizialmente l’attività di libero professionista presso uno studio privato e contemporaneamente presso lo studio di Ingegneria e Architettura di famiglia.
Nel 2012 ho intrapreso la mia prima esperienza a Roma, affiancando l’architetto incaricato, dal CONI e dalla FIT, della progettazione degli spazi del Foro Italico a Roma in occasione degli Internazionali BNL d’Italia.
Nello stesso anno sono stata assunta dalla FIT, ho proseguito l’affiancamento col progettista degli IBI; ho svolto anche il ruolo di referente FIT per gli impianti sportivi di tennis in tutta Italia e ho fatto parte per alcuni anni della Commissione Impianti Sportivi; ho anche partecipato al gruppo di controllo sul “Fondo Rotativo FIT”, verificando, dal punto di vista tecnico, le richieste di finanziamenti dei circoli affiliati.
Dal 2019 sono diventata un collaboratore esterno della Federazione Italiana Tennis e tuttora proseguo il mio percorso nel mondo dello Sport.
Da ottobre 2021 sono inserita nell’elenco del corpo nazionale dei Vigili del fuoco come professionista abilitata  alla progettazione antincendio.
Mi occupo principalmente della progettazione degli spazi, della direzione dei lavori, della sicurezza sia in fase di progettazione che esecuzione nei cantieri, della stesura di Piani Safety&Security e sono il referente nei rapporti con l’amministrazione locale durante la programmazione di manifestazioni sportive. 

 

Focus di diritto tributario • Avv. Francesco Sanna

PNRR e la riforma fiscale

A più di otto mesi dall’approvazione del Piano, si riconferma il consenso sul PNRR come grande occasione per il rilancio del Paese, ma aumenta la sfiducia sulla capacità del Governo di raggiungere gli obiettivi prefissati.
Questo è quanto emerge dal sondaggio e dall’analisi sui risultati effettuati da Ernst & Young. 

Oggi, l’83% (contro il 92% di settembre 2021) dei manager vede il PNRR come occasione unica per il rilancio del Paese.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

PNRR e prevenzione delle infiltrazioni mafiose

Il d.l. 6 novembre 2021 n. 152, denominato “Disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose”, così come convertito con la L. 29 dicembre 2021 n. 233, ha introdotto, per quanto qui di interesse, oltre alla riforma del processo penale mirata alla digitalizzazione e ad una serie di interventi per garantire maggiore celerità del procedimento, anche delle importanti novità in materia di misure di prevenzione antimafia, intervenendo sul cd. Codice antimafia.

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Focus di diritto civile, tutela della persona • Avv. Viola Zuddas

Il PNRR al servizio dello sport per l’inclusione sociale

Come chiarito dal Dipartimento per lo sport (clicca qui per un approfondimento: https://www.sport.governo.it/it/pnrr/sport-e-inclusione-sociale-avvisi-a-manifestare-interesse/ ) il PNRR si pone (anche) l’obiettivo di incrementare l’inclusione e l’integrazione sociale attraverso la realizzazione e/o la rigenerazione di impianti sportivi che favoriscano il recupero di aree urbane destinate alla collettività.

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Next generation EU e PNRR: inclusione di soggetti fragili e vulnerabili 

Al fine di riparare i danni economici e sociali causati dall’emergenza sanitaria da COVID-19 e creare una solida base per una comune ripartenza europea, la Commissione europea, il Parlamento europeo e i leader dell’UE hanno concordato un piano di ripresa di carattere finanziario denominato NextGenerationEU, espressione di una nuova politica di coesione.

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La settimana scorsa ha destato molto scalpore la notizia, rilanciata da tutte le testate giornalistiche – sportive e non –, secondo cui il tennista serbo n.1 del ranking mondiale, Novak Djokovic, avrebbe partecipato agli Australian Open che inizieranno il prossimo 17 gennaio.

Sul punto è importante ricordare che, come precisato da Craig Tiley, CEO degli Australian Open, ogni atleta che arriva in Australia deve rispettare il protocollo deciso dagli organizzatori del torneo in accordo con il Governo nazionale e le autorità locali e, pertanto, deve essere vaccinato o deve aver presentato domanda per esenzione medica.

Ebbene, Nole Djokovic, noto per le sue posizioni no vax, ha ottenuto l’esenzione dal vaccino anti Covid19 a seguito di «un rigoroso processo di revisione che coinvolge due gruppi indipendenti e separati di esperti medici […] secondo protocolli equi e indipendenti», come chiarito dagli organizzatori della Tennis Australia.

La notizia, diventata un vero e proprio “caso”, ha acceso le polemiche nel mondo dello sport ed ha coinvolto anche autorevoli esponenti della comunità scientifica come il dott. Roberto Burioni, medico, professore di microbiologia e virologia all’università Vita-Salute San Raffaele, ed il dott. Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, che hanno rilasciato delle dichiarazioni piuttosto contrariate in relazione al comportamento tenuto dal tennista e dal gruppo di medici che avrebbe esaminato la sua domanda. 

Le ipotesi di esenzione dal vaccino

Ma al di là delle motivazioni di carattere personale che possono spingere ciascuno a scegliere di sottoporsi, o meno, alla vaccinazione, ci sono delle ragioni mediche che consentono di ottenere l’esenzione dal vaccino?
Sul punto è bene precisare che il Ministero della Salute, attraverso l’adozione di apposite circolari, ha regolamentato il rilascio di certificazioni di esenzione dalla vaccinazione anti-SARS-CoV-2 nei confronti di soggetti che per condizione medica non possono ricevere o completare la vaccinazione per ottenere la certificazione verde COVID-19, ovvero il cosiddetto
Green Pass. 

In particolare, la certificazione di esenzione viene rilasciata nel caso in cui la vaccinazione stessa venga omessa o differita per la presenza di specifiche condizioni cliniche documentate che la controindichino in maniera permanente o temporanea.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Infatti, secondo quanto precisato dallo stesso Ministero della Salute, in via di prima approssimazione, la vaccinazione non deve essere somministrata quando il rischio che si manifestino delle reazioni avverse è maggiore dei vantaggi indotti dalla vaccinazione stessa. 

E’ evidente che tale valutazione, di competenza del medico, deve essere riferita allo specifico tipo di vaccino che si intende somministrare, in quanto la presenza di una controindicazione a quello specifico vaccino non esclude la possibilità che al paziente ne possano essere somministrati altri disponibili. 

Ad ogni modo, le persone che ottengono l’esenzione dalla vaccinazione anti SARS-CoV-2 devono essere adeguatamente informate sulla necessità di continuare a rispettare le norme di precauzione previste dal Governo e, in particolare, utilizzare le mascherine, praticare il distanziamento sociale dalle persone non conviventi, evitare gli assembramenti e così via. 

Quali sono le modalità di rilascio delle certificazioni di esenzione alla vaccinazione anti-SARS-CoV-2?

Come chiarito dallo stesso Ministero della Salute, le certificazioni di esenzione potranno essere rilasciate direttamente dai medici vaccinatori dei Servizi vaccinali delle Aziende ed Enti dei Servizi Sanitari Regionali o dai medici di Medicina Generale o pediatri di libera scelta dell’assistito che operano nell’ambito della campagna di vaccinazione anti-SARS-CoV-2 nazionale e che devono aver cura di archiviare la documentazione clinica del paziente. 

La certificazione deve essere rilasciata a titolo gratuito e deve contenere: 

  • i dati identificativi del soggetto interessato (nome, cognome, data di nascita); 
  • la dicitura: “soggetto esente alla vaccinazione anti SARS-CoV-2. Certificazione valida per consentire l’accesso ai servizi e attività di cui al comma 1, art. 3 del Decreto Legge 23 luglio 2021, n.105”; 
  • la data di fine di validità della certificazione; 
  • i dati relativi al Servizio vaccinale della Aziende ed Enti del Servizio Sanitario Regionale in cui il sanitario opera come vaccinatore COVID-19 (denominazione del Servizio – Regione);
  • il timbro e la firma del medico certificatore (anche digitale); 
  • il numero di iscrizione all’ordine o codice fiscale del medico certificatore. 
La posizione del Consiglio di Stato sulla verifica della regolarità del rilascio delle certificazioni di esenzione

Con la recentissima sentenza n.8454/2021, il Consiglio di Stato ha ribadito che il medico sia tenuto a documentare con rigore le specifiche condizioni cliniche del paziente dalle quali emergerebbe la necessità di esonerarlo dalla vaccinazione per la sussistenza del pericolo per la sua salute. 

L’attestazione delle “specifiche condizioni cliniche documentate” richieste dalla Legge, infatti, non consiste nella mera dichiarazione della loro esistenza “ab externo” ma impone che delle stesse sia dato effettivo riscontro nella certificazione unitamente al “pericolo per la salute” del paziente. 

Sul punto, il Consiglio di Stato ha poi evidenziato che, in caso contrario, verrebbe del tutto meno il potere di controllo da parte dell’Amministrazione, alla quale spetta, anzitutto, il potere/dovere di vagliare, quantomeno secondo un parametro minimo di attendibilità, la rispondenza della certificazione alla finalità per la quale è prevista. 

Come si è concluso “il caso” Djokovic

Quanto al tennista serbo, dopo le fortissime polemiche sollevate, il Governo australiano ha annullato il suo visto perché ritenuto non in regola con le norme anti covid previste nel Paese e l’ha posto in isolamento in un’apposita struttura di Melbourne in attesa della decisione sulla sua espulsione. 

Peraltro, il giudice del tribunale di Melbourne, che doveva pronunciarsi sull’appello proposto dal tennista contro il provvedimento di espulsione, ha dato ragione a Djokovic ed ha annullato la cancellazione del visto, condannando il Governo a pagare le spese legali e disponendo il rilascio immediato del giocatore e la restituzione del passaporto. 

La vicenda, però, non è finita qui. 

Infatti,  Christopher Tran, legale dell’esecutivo, ha sottolineato che il ministro dell’Immigrazione, Alex Hawke, starebbe considerando di usare i suoi poteri speciali per espellere comunque Djokovic dal Paese, impedendogli di farvi ritorno per i prossimi tre anni.  

Viola Zuddas, Avvocato

Come abbiamo già chiarito negli altri articoli (per un approfondimento clicca qui: https://www.forjus.it/2021/10/27/chi-e-responsabile-per-il-danno-subito-dallalunno/ ) ‘ammissione dell’allievo a scuola determina l’instaurazione di un vincolo negoziale dal quale sorge a carico dell’istituto uno specifico dovere di protezione e vigilanza volto a prevenire eventuali danni che lo studente possa subire per il tempo in cui fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni.

L’obbligazione principale, però, è quella di istruire ed educare i bambini ed i ragazzi che siano stati ammessi nell’istituto scolastico, in conformità con quanto prescritto dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (cosiddetto “MUR”).

In particolare, sul sito del MUR (per un approfondimento clicca qui: https://miur.gov.it) si legge che il sistema educativo di istruzione e di formazione italiano è organizzato in base ai principi della sussidiarietà e dell’autonomia delle istituzioni scolastiche.

Lo Stato, infatti, ha competenza legislativa esclusiva per le norme generali sull’istruzione e per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; tuttavia, le regioni hanno potestà legislativa concorrente in materia di istruzione, e potestà legislativa esclusiva in materia di istruzione e formazione professionale.Avv. Viola Zuddas, Civilista

All’interno di questo quadro istituzionale così definito, deve ricordarsi che viene comunque riconosciuta autonomia didattica, organizzativa e di ricerca, sperimentazione e sviluppo alle istituzioni scolastiche.
Ad oggi, però, sono pochi gli istituti scolastici che inseriscono nella loro offerta formativa l’insegnamento dell’italiano e di una lingua minore o del dialetto regionale (il cosiddetto “bilinguismo”).

Qual è la differenza tra lingua e dialetto?

Prima di approfondire tale aspetto, è importante chiarire quali siano le differenze tra lingua e dialetto.

Sul punto, Enrico Putzolu, in qualità di operatore di sportello linguistico (figura istituita ai sensi della legge n.482/1999 in materia di Tutela e promozione delle lingue locali), precisa che sotto il profilo linguistico non vi è alcuna differenza tra lingua e dialetto, anche se comunemente la prima sarebbe percepita come un sistema autonomo superordinato, mentre il secondo come un sistema linguistico subalterno.

Ma la gerarchia fra lingua e dialetto non ha nulla a che fare con la natura dei due termini che, evidentemente, sono stati ormai privati del loro significato originale.
Infatti, “lingua” è un termine usato a lungo tra gli intellettuali umanistici della Questione della lingua del Cinquecento per indicare le parlate municipali dotate di prestigio; mentre, “dialetto” deriva dal greco dialektos, ovvero conversazione, colloquio, ed è stato impiegato per indicare le varietà greche assurte a linguaggi letterari.

Dunque, per tanto tempo, lingua e dialetto sono stati sinonimi indicanti «un sistema o codice linguistico proprio di una regione europea o di un territorio meno vasto».

Bisogna, inoltre, precisare che il processo letterario messo in atto da Pietro Bembo e dall’Accademia della Crusca a partire dal XVI secolo, con il quale venne ideato un vero programma culturale e di codificazione della lingua italiana, esalterà la parlata toscana a tal punto che questa verrà confermata lingua nazionale in seno all’unità sabauda, relegando così le altre a “varietà subalterne”.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Può, dunque, affermarsi che la differenza tra lingua e dialetto oggigiorno sia dovuta più a ragioni di natura storico-sociologica che linguistica.

Chiarito ciò, deve ricordarsi che esistono diversi livelli di politiche linguistiche e differenti normative che sono il frutto dei processi storici che hanno interessato l’Italia intera e le singole regioni e che portano con sé eredità differenti e diverse sensibilità.

Il sardo: lingua o dialetto?

In Sardegna, ad esempio, il “sardo” è riconosciuto come lingua e non come dialetto, anzitutto in ragione delle sue peculiarità linguistiche: è, infatti, una lingua indoeuropea considerata autonoma rispetto ai sistemi dialettali di area italica, gallica e ispanica e, pertanto, è classificata come idioma a se stante nel panorama neolatino e, più precisamente, è ascritto nel gruppo distinto del “Romanzo Insulare”.

A ciò si aggiunga che vi sono diversi interventi legislativi – soprattutto di carattere regionale, come la Legge Regionale 3 luglio 2018, n. 22 recante “Disciplina della politica linguistica regionale” – volti a dare applicazione al principio di parità linguistica sancito dall’art. 6 della Costituzione, che tendono, tra l’altro, ad incentivare l’organizzazione di corsi nelle scuole per preservare la memoria e salvaguardare le caratteristiche culturali della società, affinché le nuove generazioni non dimentichino le proprie radici e possano continuare a godere dei benefici cognitivi indotti dal bilinguismo locale.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Lo stesso Enrico Putzolu, attivo nel panorama delle attività promosse e sostenute dalle leggi a tutela delle realtà linguistiche locali, si occupa della formazione in lingua sarda e dei laboratori linguistici che cura e gestisce come insegnante in alcuni istituti scolastici della Sardegna, e come formatore nell’ambito dei corsi di alfabetizzazione per i dipendenti pubblici curati dagli sportelli linguistici comunali.

Come possono gli studenti applicare, in concreto, questi principi durante lo svolgimento dell’attività scolastica?

Intanto, come già chiarito in precedenza, la L. Regionale 22/2018 – per quel che qui interessa – tutela, promuove e valorizza la lingua sarda anche attraverso l’educazione plurilingue nelle scuole di ogni ordine e grado.

Per queste finalità, dunque, è consentito agli studenti parlare il sardo durante l’orario di lezione, dimodoché gli stessi riescano ad acquisire delle maggiori competenze linguistiche che potranno sicuramente essere valutate come una risorsa da spendere anche in futuro nel mondo del lavoro.

Tra l’altro, sono diversi gli esempi di ragazzi che, negli ultimi anni, hanno sostenuto degli esami o, addirittura, preparato la tesi in lingua sarda.

Infatti, quando l’istituto scolastico presenta la propria offerta formativa in regime di bilinguismo, prevedendo l’insegnamento del sardo tramite progetti cosiddetti “C.L.I.L.”, cioè Content and Language Integrated Learning – che in altri contesti analoghi, come in Catalogna o Irlanda, viene chiamata “immersione linguistica” – punta a far sì che l’apprendimento e la pratica della lingua minore (o del dialetto) proceda di pari passo con l’acquisizione delle competenze didattiche.

Proprio in questi istituti, quindi, gli studenti sono maggiormente incentivati ad utilizzare il sardo nello svolgimento dell’attività didattica.

Viola Zuddas, Avvocato

L’ammissione dell’allievo a scuola determina l’instaurazione di un vincolo negoziale dal quale sorge a carico dell’istituto l’obbligo di istruire ed educare e, altresì, uno specifico dovere di protezione e vigilanza volto a prevenire eventuali danni che lo studente possa subire per il tempo in cui fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni.

Tali obblighi, quindi, sorgono dall’ingresso dell’alunno nell’istituto e permangono fino all’uscita dallo stesso, estendendosi anche alle manifestazioni sportive o alle gite che, organizzate dalla scuola, si svolgono al di fuori dell’orario delle lezioni ed in locali differenti.

Essi si sostanziano nel dovere di predisporre, in via preventiva, gli accorgimenti necessari affinché non venga arrecato alcun danno allo studente fintantoché questi è affidato all’istituto: naturalmente, il contenuto degli obblighi varia in relazione alle circostanze del caso concreto e, in particolare, all’età dell’alunno.

Difatti, il dovere di vigilanza dev’essere commisurato all’età dello studente e, precisamente, è inversamente proporzionale rispetto alla maturità raggiunta, tant’è che è tanto più stringente quanto minore sia l’età dell’allievo in rapporto anche all’acquisizione, o meno, di un adeguato grado di maturità comportamentale ed al contesto ambientale in cui agisce.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Ebbene, la violazione del predetto dovere comporta l’insorgenza della responsabilità contrattuale in capo all’istituto, in quanto il personale, didattico e non didattico, è tenuto a vigilare diligentemente sugli alunni, adottando tutte le cautele necessarie per evitare che, nel corso dello svolgimento del rapporto scolastico, questi riportino dei danni.

Per tale motivo, incombe sempre sull’istituto il dovere di organizzare la vigilanza degli studenti sia in relazione all’uso degli spazi comuni durante l’entrata e l’uscita da scuola, sia in relazione ai materiali ed ai prodotti in uso normalmente ai ragazzi.

In caso di violazione di tali obblighi, quindi, l’istituto scolastico è contrattualmente responsabile per il danno che l’allievo abbia subito, salvo che non riesca a dimostrare che l’evento lesivo sia stato determinato da causa non imputabile né alla scuola medesima né al personale.

Tuttavia, qualora il danno patito sia stato inflitto da un terzo, ad esempio un compagno di classe, la responsabilità a carico dell’istituto è di natura extracontrattuale purché il danno sia stato causato da un fatto illecito obiettivamente antigiuridico.

Nello specifico, il comportamento che ha causato il pregiudizio dev’essere stato posto in essere con un grado di violenza incompatibile con il contesto ambientale nel quale l’attività scolastica si svolge o con le qualità delle persone che vi partecipano, oppure dev’essere stato posto in essere in violazione delle regole che disciplinano lo svolgimento sereno dell’attività o, infine, con lo specifico scopo di ledere.Avv. Viola Zuddas, Civilista

In tali ipotesi, quindi, i genitori dell’alunno potranno ottenere il risarcimento se riusciranno a dimostrare non solo l’affidamento del minore alla cura e vigilanza dell’istituto ma, altresì, che il danno subito sia stato causato da una condotta illecita posta da un terzo.

In considerazione di quanto sino ad ora chiarito, l’istituto scolastico è responsabile del danno subito dall’alunno per il tempo in cui fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni.

La responsabilità, però, potrà essere di natura contrattuale o extracontrattuale a seconda delle circostanze del caso concreto e sempreché non vi siano delle particolari condizioni che ne precludano la riferibilità all’istituto medesimo o al personale.

Viola Zuddas, Avvocato

Uno studio recentissimo dell’ISS svolto in collaborazione con l’Istituto Farmacologico Mario Negri, presentato il 31 maggio scorso in occasione della giornata mondiale senza tabacco, ha messo in evidenza come la pandemia abbia cambiato le abitudini degli italiani anche rispetto al fumo.

Infatti, se nei primi mesi del 2020 vi è stata una considerevole riduzione del consumo di tabacco, nei primi mesi del 2021 è stato registrato un aumento di 1,2 milioni di fumatori.

Un ruolo importante nell’aumento dei fumatori è stato svolto dalle sigarette elettroniche, sia quelle a tabacco riscaldato che le cosiddette e-cig: infatti, il loro utilizzo favorisce, da una parte, l’iniziazione al fumo e, dall’altra, contribuisce alla ricaduta nel consumo di sigarette tradizionali, ostacolandone in concreto la cessazione. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Si pensi, poi, che secondo i dati forniti dall’Oms sono più di 8 milioni le persone che muoiono ogni anno a causa delle gravi e numerose patologie correlate al consumo di tabacco, come malattie cardiovascolari, tumori, malattie respiratorie e diabete.

A ciò si aggiunga che si è ormai consolidata anche l’evidenza scientifica secondo cui i fumatori hanno maggiori probabilità di sviluppare una forma grave di Covid-19 rispetto ai non fumatori.

Ebbene, in un contesto simile su chi ricade la responsabilità per i danni che una persona riporta per il consumo di sigarette?

Per rispondere a questa domanda bisogna da subito precisare che, negli ultimi decenni, è cresciuta la consapevolezza delle persone rispetto alla dannosità del tabagismo.

Infatti, è pur vero che qualche decennio fa le persone iniziavano a fumare sigarette sin da giovani, in quanto era un’abitudine piuttosto diffusa per ragioni culturali, sociali o di costume; tuttavia, adesso sono ben note le conseguenze che il fumo ha sull’organismo grazie anche a campagne di informazione promosse dallo Stato e da diversi enti ed associazioni.

Pensiamo, ad esempio, agli “avvertimenti” che nei primi anni 2000 sono comparsi sui pacchetti di sigarette e che contengono messaggi che descrivono i danni alla salute provocati dal fumo, accompagnati, in alcuni casi, da foto che rappresentano le conseguenze nocive sul nostro organismo.Avv. Viola Zuddas, Civilista

La dannosità del fumo, quindi, costituisce ormai da molto tempo dato di comune esperienza: il fumare, dunque, è un atto di volizione libero ed autonomo da parte di una persona che, pur consapevole della sua dannosità, sceglie comunque di fumare e, di conseguenza, di esporsi volontariamente ad un rischio per la salute.

A nulla rileva che le sigarette contengano delle sostanze tali da ingenerare uno stato di bisogno con dipendenza psichica e fisica che indurrebbero le persone a continuare a fumare.

Sul punto, la Corte di Cassazione è infatti costante nell’affermare che debba escludersi la sussistenza del nesso causale tra la condotta dei produttori / distributori di sigarette ed il danno derivato al soggetto in conseguenza del fumo, in quanto il prodotto finale dell’attività produttiva (ossia la sigaretta) non ha in sé una capacità di provocare situazioni dannose: invero, può diventare dannoso, e quindi pericoloso, l’abuso di sigarette specie se reiterato nel tempo.

Pertanto, è allo stesso fumatore che viene imputata la responsabilità per i danni alla propria salute, soprattutto quando abbia consumato sigarette in modo smodato, nonostante gli avvertimenti apposti sui pacchetti.

Viola Zuddas, Avvocato

La salute rappresenta un diritto fondamentale del singolo e, altresì, un interesse preminente della collettività, soprattutto quando l’impatto sul tessuto sociale sia devastante come sta accadendo, purtroppo, per effetto della pandemia da Covid-19.

Per tenere sotto controllo la diffusione del virus risulta di primaria importanza raggiungere l’immunità di gregge o, quantomeno, vaccinare il maggior numero di persone nel minor tempo possibile.

Per poter raggiungere questo obiettivo, l’Agenzia Europea per i medicinali e l’AIFA hanno autorizzato i vaccini Pfizer – BioNTech, Moderna, Vaxzevria (ex AstraZeneca) e COVID-19 Vaccine Janssen di Johnson & Johnson che sono stati messi a punto per indurre una risposta immunitaria in grado di bloccare la proteina “Spike” ed impedire al virus di infettare le cellule del nostro corpo.

Tuttavia, nel corso di questi mesi sono stati registrati dei grossi ritardi nella produzione e nella distribuzione da parte delle aziende che producono i vaccini e queste circostanze hanno inciso notevolmente sulla campagna vaccinale non solo dell’Italia ma di tutta l’Europa.

Nello specifico, per quanto ci riguarda più da vicino, la disponibilità di dosi non è la stessa per tutti i vaccini e, quindi, il Governo ha dovuto predisporre un piano vaccinale (il cosiddetto “Piano strategico per la vaccinazione anti COVID-19”), che si occupa di regolamentare le somministrazioni dei vaccini sulla base di alcuni parametri e criteri ben precisi.

Infatti, alcune persone (quelle cosiddette “fragili”) corrono il rischio di infettarsi e sviluppare la malattia in forma più grave rispetto ad altre e, pertanto, il Governo ha dovuto operare delle scelte volte a tutelarle anche nell’ambito della vaccinazione perché, come chiarito dalle stesse case farmaceutiche, non tutti i vaccini possono essere somministrati a qualunque persona.

Ebbene, in questa fase iniziale caratterizzata da un numero limitato di dosi consegnate, per garantire la massima equità di accesso alla vaccinazione, i vaccini Pfizer – BioNTech, Moderna, Vaxzevria e Janssen sono offerti gratuitamente a tutta la popolazione secondo un ordine di priorità che tiene conto sia del rischio di malattia che riguarda le persone, sia della disponibilità di dosi di ogni siero. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Per questo motivo, quindi, allo stato attuale non è consentito alle persone scegliere la tipologia di vaccino da somministrare, poiché questa è demandata agli operatori sanitari in considerazione delle loro competenze e capacità professionali.

Infatti, affinché la scelta del tipo di vaccino da inoculare sia operata in maniera corretta, in ogni hub vaccinale sono presenti dei medici che, dopo aver fatto un approfondito colloquio con il “paziente”, riesaminano con lui la scheda anamnestica, ovvero il modulo che, attraverso specifiche domande, consente di valutare la presenza di controindicazioni o precauzioni particolari in relazione alla somministrazione di uno specifico tipo di vaccino.

Sulla base delle indicazioni fornite dal Governo, dunque, fino a quando la disponibilità delle dosi sarà ridotta, le persone non potranno esprimere la propria preferenza rispetto a quale tipologia di vaccino farsi inoculare, poiché in caso contrario si rischierebbe di escludere dalla profilassi i pazienti più fragili, ai quali può essere somministrato soltanto un tipo di siero. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Per ovviare a questo inconveniente e, quindi, per scongiurare che vengano aggirate le problematiche in materia di equità di accesso ai vaccini, alcune Regioni non permettono a chi rifiuta la somministrazione di un tipo specifico di vaccino di riprenotarsi nell’immediato o, addirittura, impongono lo slittamento in coda alla lista della classe d’età di appartenenza.

Alcuni Paesi, invero, consentono ai cittadini di scegliere quale siero farsi inoculare.

Pensiamo, ad esempio, alla Serbia che, grazie ad una campagna vaccinale molto efficiente, sta diventando una meta prediletta per il turismo vaccinale: infatti, previa compilazione di un questionario online, permette anche ai cittadini stranieri residenti all’estero di prenotarsi per la somministrazione gratuita del tipo prescelto di vaccino.

Ebbene, quando la campagna vaccinale avrà raggiunto gli obiettivi sperati e l’Italia avrà un congruo numero di dosi di tutti i vaccini, i cittadini potranno scegliere quale siero farsi inoculare, sempre seguendo le indicazioni fornite dal proprio medico che chiaramente ha le competenze per valutare quale vaccino sia quello più idoneo.

Viola Zuddas, Avvocato
Perché l’Italia ha bisogno del DDL Zan

Oggi, 17 maggio, si celebra in Europa la giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia quale occasione di riflessione contro i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze, fisiche e morali, legati all’orientamento sessuale.

Questa data è stata scelta perché il 17 maggio 1990 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rimosso l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali, definendola come «una variante naturale del comportamento umano» e chiarendo, in sostanza, che l’orientamento sessuale di ciascuno non possa essere ricondotto né ad una patologia né, tantomeno, ad un disturbo mentale.

Sul punto, deve ricordarsi che negli anni ’60 – ’70 l’omosessualità era considerata una deviazione sessuale (al pari della pedofilia), ed, altresì, una condizione psicopatologica inclusa tra i cosiddetti “disturbi sociopatici di personalità”.

Il DDL Zan, tra le misure di cui si fa portavoce, propone all’art. 7 di istituire il giorno 17 maggio quale giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, al fine di «promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché di contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, in attuazione dei princìpi di eguaglianza e di pari dignità sociale sanciti dalla Costituzione.» Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista • Avv. Viola Zuddas, Civilista

In occasione di tale giornata, quindi, verranno organizzate cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile per favorire la diffusione di questi principi e, dunque, contrastare ogni forma di discriminazione e violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità.

Al riguardo, è importante chiarire che il DDL Zan, che prende il nome dal suo relatore Alessandro Zan, è un disegno di legge contro i crimini d’odio che va ad affiancarsi alla L. 25 giugno 1993, n. 205 (cosiddetta “Legge Mancino”), che si occupa di reprimere la discriminazione, l’odio o la violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

Con il DDL Zan, quindi, le misure repressive già previste dalla Legge Mancino vengono estese anche contro le discriminazioni che siano fondate sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità, in maniera tale da offrire una tutela rafforzata e più stringente.

A tale proposito, il DDL Zan, all’art. 1, precisa che:

  • per sesso si intende il sesso biologico o anagrafico,
  • per genere si intende qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso,
  • per orientamento sessuale si intende l’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi,
  • per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione.

Ebbene, per comprendere il motivo per il quale questo provvedimento tanto discusso potrebbe rivelarsi necessario per il nostro Paese, è utile richiamare il report aggiornato al dicembre 2020 che annualmente l’ILGA – Europe stila per fotografare la situazione dei diritti umani delle persone lesbiche, gay, bisessuali, trans e intersessuali in Italia.

Il nostro Paese, infatti, si colloca al 35° posto in Europa per la lotta alle discriminazioni fondate sul sesso e per l’inclusione delle persone; per intenderci, peggio dell’Italia fanno Paesi come la Russia, la Polonia e la Turchia.

Questo posizionamento è dato da diversi criteri in cui si tiene conto di:

  • uguaglianza e non discriminazione (ad esempio, vi sono discriminazioni nel mondo del lavoro in base all’orientamento sessuale),
  • famiglia (ad esempio, vi è la possibilità di riconoscere alle coppie omosex diritti simili al matrimonio),
    crimini d’odio ed incitamento all’odio (ad esempio, vi sono o sono in programma Leggi contro i crimini d’odio),
  • riconoscimento legale del genere ed integrità fisica (ad esempio, è riconosciuta la possibilità di sottoporsi ad interventi chirurgici per il cambio di sesso),
  • spazio della società civile (ad esempio, si garantisce alle associazioni LGBTI di organizzare manifestazioni),
  • asilo (ad esempio, vi sono o sono in programma Leggi sull’orientamento sessuale e l’identità di genere).

Sulla base dei dati riportati, quindi, si può purtroppo affermare che nel nostro Paese non vi sia un sistema legislativo in grado di assicurare efficacemente l’inclusione delle persone LGBTI nella società o che si occupi di reprimere con risolutezza atteggiamenti discriminatori, stigmatizzanti e violenti nei loro confronti.

È, dunque, agevole comprendere i motivi per i quali il DDL Zan potrebbe rappresentare un valido strumento per promuovere una cultura di maggiore rispetto ed inclusione e per riconoscere alle persone il diritto di vivere liberamente la propria vita affettiva e sessuale.

Francesco SannaViola Zuddas, Avvocati

Il 27 dicembre 2020 è stato scelto come giorno per far partire, in tutta Europa, la campagna vaccinale gratuita per sconfiggere la pandemia da SARS-CoV-2.

In Italia, in particolare, si è deciso di vaccinare per primi i medici, gli infermieri e tutto il personale sanitario che è quotidianamente, ormai da un anno, impegnato in prima linea nella lotta contro il Covid-19.

Tale fase è giunta al termine nelle scorse settimane e, quindi, in questi giorni si è proceduto a somministrare il vaccino agli ospiti delle RSA ed ai soggetti fragili, ovvero agli appartenenti alle categorie più a rischio a causa dell’età avanzata o per altri fattori.

La campagna vaccinale, secondo le previsioni del Comitato Tecnico Scientifico italiano, dovrebbe durare almeno un anno affinché sia possibile vaccinare il 70% della popolazione e consentire, quindi, di raggiungere l’immunità di gregge che permetterebbe di tenere sotto controllo la diffusione del virus.

Nonostante l’importanza dell’obiettivo, il Governo guidato da Mario Draghi, in continuità con quanto già stabilito dal suo predecessore, ha deciso di non imporre, almeno nella prima fase di profilassi, l’obbligatorietà del vaccino e, pertanto, questo verrà somministrato soltanto alle persone che intendano aderire volontariamente alla campagna vaccinale.

In proposito, è utile richiamare quanto prescritto dall’art. 32 Cost. che tutela la salute sia come fondamentale diritto del singolo che come interesse della collettività e che, al contempo, precisa che nessuna persona possa essere sottoposta, contro la propria volontà, ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Così, la salute rappresenta, da una parte, un diritto fondamentale del singolo e, altresì, un interesse preminente della collettività soprattutto quando l’impatto sul tessuto sociale (e di conseguenza anche su quello economico) sia oltremodo rilevante; d’altra parte, tuttavia, essa non può essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva.

Invero, la Corte Costituzionale, pronunciatasi di recente in materia di vaccinazioni obbligatorie contro il rischio di malattie infettive per i minori di sedici anni, ha chiarito che si può imporre un trattamento sanitario quando questo sia diretto a migliorare lo stato di salute di chi vi è assoggettato e sia, altresì, funzionale a preservare quello degli altri, sempre che eventuali effetti negativi sulla salute siano limitati a quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, siano tollerabili in considerazione delle circostanze del caso concreto (Corte Cost., sent. 18 gennaio 2018, n. 5).

Anche nell’ipotesi della pandemia da SARS-CoV-2, quindi, potrebbe ragionevolmente valutarsi l’obbligatorietà del vaccino in considerazione delle migliaia di morti e dell’elevata diffusività del virus che, ancora a distanza di un anno, continua a causare delle forti restrizioni alle libertà fondamentali di tutti, imponendo, di fatto, un radicale cambiamento delle attività quotidiane.

Tale problematica, inoltre, appare di grandissimo rilievo stante il fatto che nel nostro territorio si stanno diffondendo delle varianti del Covid-19, in particolare quella inglese e quella brasiliana, che risultano avere una maggiore trasmissibilità e, dunque, potrebbero causare un aumento del numero delle infezioni.

Si sta valutando, pertanto, di imporre l’obbligatorietà del vaccino nel mondo del lavoro e, specialmente, in quei settori in cui il lavoratore, dipendente pubblico o privato, entra in contatto con un numero elevato di persone: potrebbero, quindi, essere sottoposti a profilassi obbligatoria coloro che esercitano la professione medica, i docenti delle scuole ed i rappresentanti delle forze dell’ordine.

A questo proposito, peraltro, è opportuno considerare che l’art. 2087 c.c. prescrive che i datori di lavoro siano tenuti ad adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Tale norma, che trova il proprio fondamento nell’art. 32 Cost., è volta a salvaguardare la salute dei lavoratori mediante l’imposizione, in capo ai datori di lavoro, di obblighi di sicurezza che devono permanere durante lo svolgimento della prestazione: così, i datori di lavoro sono tenuti ad adottare e mantenere dei presidi antinfortunistici per preservare i lavoratori dai rischi connessi alla specifica attività prestata e, altresì, sono obbligati ad adeguare gli strumenti di protezione ai progressi tecnologici e della scienza.

Tra l’altro, non deve dimenticarsi che lo stesso legislatore ha ricondotto il rischio Covid ad un rischio di natura professionale, e ciò ha imposto ai datori di lavoro l’obbligo di adottare ulteriori e specifici protocolli di sicurezza, concordati con le parti sociali, per consentire lo svolgimento in sicurezza dell’attività produttiva.

In questo contesto, quindi, potrebbe risultare ragionevole che i datori di lavoro impongano la profilassi contro il Covid-19 al fine di garantire la salute di tutti i propri dipendenti, anche in considerazione del fatto che l’art. 42, comma secondo del D.L. 18/2020, cosiddetto “Cura Italia”, ha prescritto che l’infezione da coronavirus, contratta dai lavoratori nell’esercizio delle proprie mansioni, debba essere considerata una malattia professionale e, pertanto, l’INAIL è tenuto ad erogare le prestazioni  dovute.

Tale soluzione appare sicuramente coerente con il principio di solidarietà sancito dalla Costituzione che, pur tenendo in debita considerazione la libertà individuale di ciascuno, non può non attribuire preminente rilevanza alla tutela della salute pubblica e, di conseguenza, della collettività.

Viola Zuddas, Avvocato