Un sindacato per gli influencer?

Quella degli influencer è una categoria che negli ultimi anni si sta ritagliando una fetta sempre più consistente nel mercato dei social, della pubblicità e del marketing in generale.

Gli influencer, infatti, hanno la capacità di influenzare in modo rilevante le opinioni ed orientare i comportamenti dei follower grazie alla propria reputazione ed all’impegno che profondono rispetto a certe tematiche di particolare interesse ed attualità.

Questo meccanismo, quindi, è reso possibile (e si alimenta continuamente) grazie ai grandi numeri di follower che seguono e supportano costantemente gli influencer stessi: questi, infatti, riescono a raggiungere migliaia di persone, in alcuni casi anche milioni, e ciò consente loro di diffondere un dato messaggio in maniera rapida e capillare.

Nonostante vi sia ancora qualche resistenza, quello dell’influencer è ritenuto da molti un vero e proprio lavoro attorno al quale, peraltro, gravitano notevoli interessi economici, tant’è che, sempre più spesso, aziende e marchi (anche affermati) si rivolgono a queste figure professionali per avere una maggiore pubblicità e riuscire a consolidare la loro posizione nel mercato.

Difatti, attraverso i post e le stories sui social gli influencer creano contenuti di semplice intrattenimento oppure di caratura professionale e artistica e riescono, così, ad orientare le scelte commerciali dei propri follower.

Per questi motivi, quindi, potrebbe risultare opportuno riconoscere il mestiere dell’influencer come una vera e propria categoria di professionisti, cui ricondurre un trattamento unitario o, quanto più possibile, omogeneo sia in termini di condizioni di lavoro sia in termini strettamente economici. Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista • Avv. Viola Zuddas, Civilista

Infatti, non sono pochi gli influencer che lamentano trattamenti discriminatori da parte delle stesse aziende che li contattano e che imporrebbero loro dei “tariffari” differenti in base, ad esempio, al genere.

Purtroppo, anche in questo settore si registra il triste fenomeno del gender pay gap: nonostante il mercato sia popolato in larga parte da influencer donne (secondo alcuni studi, addirittura l’80%), gli uomini percepirebbero un compenso superiore mediamente del 25% rispetto a quello delle colleghe.

Tale gap è frutto, in parte, della cultura dei nostri tempi (tant’è che, come sappiamo, si riscontra pressoché in ogni settore del lavoro – dal pubblico al privato) e, in parte, è dovuto al fatto che non vi sono dei tariffari legalmente approvati che gli influencer possono applicare per mettersi al riparo dal potere contrattuale più forte di brand o aziende.

Sulla base di queste premesse, dunque, non sarebbe sbagliato che al mestiere dell’influencer venissero riconosciute delle tutele che consentirebbero di svolgere con maggiore sicurezza questa professione.

Questi obiettivi, peraltro, sono il fondamento della Associazione italiana influencer – AI2, formalmente inserita dal Ministero dello Sviluppo Economico nell’elenco delle associazioni professionali di cui alla L. n. 4/2013, ed il cui statuto, tra le altre finalità, si propone di:

  • sostenere e sviluppare l’attività degli influencer sia in Italia che all’estero, favorendone la crescita professionale,
  • promuovere la ricerca e la diffusione / divulgazione delle conoscenze in materia, nonché le relative attività di formazione,
  • sviluppare soluzioni condivise ai problemi che ineriscono allo svolgimento dell’attività degli influencer, anche mediante la promozione di contratti collettivi nazionali, nonché l’elaborazione di standard e/o linee guida inerenti le best practices.

Ebbene, uno degli strumenti che potrebbe essere validamente impiegato per il raggiungimento di tali obiettivi è rappresentato dal sindacato, richiesto a gran voce da diversi influencer.

Il sindacato, come noto, è una forma di associazione di lavoratori, appartenenti ad uno specifico settore o mestiere, che si occupa di tutelare i diritti di quella data categoria, attraverso la regolamentazione delle condizioni di lavoro e la previsione, ad esempio, di compensi minimi uguali per tutti. Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista • Avv. Viola Zuddas, Civilista

Pertanto, la presenza di un sindacato – già prevista peraltro in altri Paesi, come l’America – potrebbe mettere al riparo gli influencer, soprattutto i cosiddetti “micro influencer” – cioè quelli che hanno meno di 100.000 follower, in sostanza-, non solo da comportamenti discriminatori ma, soprattutto, dalle truffe e dalle frodi delle aziende.

Sul punto, deve ricordarsi che spesso i “micro influencer” sono costretti ad acquistare, con denari propri, i prodotti che dovranno poi promuovere nei loro social o, addirittura, sono tenuti a garantire la pubblicazione di un numero di post o stories spropositato rispetto agli “omaggi” che ricevono.

Questa situazione, invero, è spesso aggravata dal fatto che le aziende hanno del personale qualificato che viene impiegato stabilmente nella cura degli affari legati alla contrattazione con gli influencer, mentre questi ultimi – che, peraltro, nella maggior parte dei casi sono di giovanissima età – non hanno sempre le competenze e le capacità per negoziare.

Non vi è dubbio, quindi, che spesso può registrarsi una vera e propria disparità e sproporzione tra le due posizioni che, dunque, potrebbe trovare un nuovo equilibrio con l’ingresso di un sindacato che, affiancando la parte più “debole” – cioè gli influencer -, potrebbe apportare maggiore equità nella contrattazione.

Nel contesto attuale, dunque, approntare un sistema di maggiori tutele in generale ed introdurre, in particolare, una figura di riferimento come il sindacato potrebbe agevolare il dialogo tra le parti e restituire un maggiore equilibrio alla contrattazione del mercato.

Francesco SannaViola Zuddas, Avvocati

L’emergenza epidemiologica da Covid-19 ha causato l’interruzione del ciclo economico e produttivo di aziende ed imprese, sia di piccole che di grandi dimensioni: queste, quindi, hanno attraversato – ed attraversano tuttora – delle grandi difficoltà nella gestione delle risorse personali ed economiche, che le hanno portate, loro malgrado, a dover licenziare parte del proprio personale.

Per tutelare i datori di lavoro ed i lavoratori dipendenti, il Governo Conte, di concerto con le parti sociali, ha approntato un articolato sistema di ammortizzatori sociali per consentire la riorganizzazione strutturale dell’azienda in crisi e ridimensionare il costo del lavoro, cui si accompagnano degli incentivi volti ad evitare la dispersione del capitale umano e, al contempo, favorire l’occupazione.

Tra le tante misure adottate, il D.L. 17 marzo 2020, n. 18 (cosiddetto “Cura Italia”), convertito in L. 24 aprile 2020, n. 27, ha imposto fino al 31 marzo 2021 il divieto di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, ovvero quelli determinati da «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa.» (art. 3 della L. 15 luglio 1966, n. 604)

In particolare, quindi, al datore di lavoro è preclusa la possibilità di intimare il licenziamento al proprio dipendente pure in presenza di un evento di natura eccezionale ed imprevedibile, come l’emergenza da SARS-CoV-2, che di fatto determina la riduzione dei livelli di attività e, conseguentemente, causa l’alterazione del rapporto tra fabbisogno occupazionale e numero dei lavoratori impiegati in quel dato momento.
La medesima misura, invero, è stata adottata anche in ordine al licenziamento collettivo: questo, infatti, non può essere intimato neppure quando ricorrano oggettive esigenze tecnico – produttive che imporrebbero la riduzione del personale.

Pertanto, sia in caso di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo che in caso di licenziamento collettivo, il recesso unilaterale del datore di lavoro dev’essere considerato nullo, in quanto posto in violazione di una norma avente carattere imperativo, collegata ad esigenze di ordine pubblico.

Ne consegue che il lavoratore che sia stato licenziato può legittimamente adire l’autorità giudiziaria per ottenere, previa declaratoria di nullità del licenziamento intimato, la reintegra nel proprio posto di lavoro, il risarcimento del danno consistito nella mancata retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione, e la condanna del datore di lavoro al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali spettantigli. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Tuttavia, bisogna precisare che il blocco dei licenziamenti, imposto dal predetto decreto “Cura Italia”, cesserà il 31 marzo 2021 e, pertanto, il nuovo ministro del lavoro Orlando dovrà valutare l’opportunità della sua proroga o, quantomeno, la necessità di adottare ulteriori riforme degli ammortizzatori sociali.

Sul punto, è importante rilevare che l’Istat ha registrato un considerevole calo dell’occupazione nel nostro territorio, e che esso ha riguardato, in particolare, i lavoratori precari, le partite iva e coloro che avevano un contratto stagionale: al contrario, i danni sono stati contenuti per i lavoratori subordinati proprio grazie al blocco dei licenziamenti ed alla cassa integrazione.
Invero, giunti al 31 marzo 2021, si rischia di assistere a decine di migliaia di licenziamenti che porteranno ad irreversibili ed inevitabili processi di ristrutturazione delle imprese e, nei casi più gravi, alla cessazione dell’intera attività.

Non vi è dubbio, quindi, che, al fine di scongiurare un’improvvisa e difficilmente gestibile ripercussione sull’occupazione, il governo guidato da Mario Draghi dovrà adottare soluzioni mirate che tengano in considerazione le differenze esistenti nel mondo del lavoro e che siano effettivamente rispondenti alle esigenze concrete sia dei lavoratori che delle imprese.

A quest’ultimo proposito, deve darsi conto del dibattito crescente in ordine alla legittimità del blocco dei licenziamenti e, di conseguenza, di una sua eventuale proroga.

L’art. 41 Cost., comma primo, infatti, precisa che “L’iniziativa economica privata è libera” e, dunque, l’adozione di misure che incidano sulla libertà di impresa dovrebbe essere dettata solo da esigenze di carattere straordinario e, comunque, dovrebbe essere limitata nel tempo. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Proprio tale aspetto solleva non poche perplessità, poiché le disposizioni che sono state adottate (come, appunto, il blocco dei licenziamenti) sono entrate in vigore da ben 13 mesi e, dunque, non sarebbero pienamente compatibili con il concetto di “temporaneità” che dovrebbe giustificare un divieto di tale portata.

Tali considerazioni sono sicuramente condivisibili; tuttavia, non può sottacersi che le predette misure siano state assunte per tutelare la salute collettiva dal rischio pandemico e che, nelle intenzioni del governo guidato dal presidente Conte, sarebbero dovute rimanere in vigore per un periodo limitato di 60 giorni.

Ad ogni modo, sarà necessario attendere i provvedimenti che il nuovo governo adotterà nelle prossime settimane, nella speranza che vengano gettate le basi per una riforma organica del mondo del lavoro e, altresì, degli ammortizzatori sociali.

Viola Zuddas, Avvocato

Il 27 dicembre 2020 è stato scelto come giorno per far partire, in tutta Europa, la campagna vaccinale gratuita per sconfiggere la pandemia da SARS-CoV-2.

In Italia, in particolare, si è deciso di vaccinare per primi i medici, gli infermieri e tutto il personale sanitario che è quotidianamente, ormai da un anno, impegnato in prima linea nella lotta contro il Covid-19.

Tale fase è giunta al termine nelle scorse settimane e, quindi, in questi giorni si è proceduto a somministrare il vaccino agli ospiti delle RSA ed ai soggetti fragili, ovvero agli appartenenti alle categorie più a rischio a causa dell’età avanzata o per altri fattori.

La campagna vaccinale, secondo le previsioni del Comitato Tecnico Scientifico italiano, dovrebbe durare almeno un anno affinché sia possibile vaccinare il 70% della popolazione e consentire, quindi, di raggiungere l’immunità di gregge che permetterebbe di tenere sotto controllo la diffusione del virus.

Nonostante l’importanza dell’obiettivo, il Governo guidato da Mario Draghi, in continuità con quanto già stabilito dal suo predecessore, ha deciso di non imporre, almeno nella prima fase di profilassi, l’obbligatorietà del vaccino e, pertanto, questo verrà somministrato soltanto alle persone che intendano aderire volontariamente alla campagna vaccinale.

In proposito, è utile richiamare quanto prescritto dall’art. 32 Cost. che tutela la salute sia come fondamentale diritto del singolo che come interesse della collettività e che, al contempo, precisa che nessuna persona possa essere sottoposta, contro la propria volontà, ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Così, la salute rappresenta, da una parte, un diritto fondamentale del singolo e, altresì, un interesse preminente della collettività soprattutto quando l’impatto sul tessuto sociale (e di conseguenza anche su quello economico) sia oltremodo rilevante; d’altra parte, tuttavia, essa non può essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva.

Invero, la Corte Costituzionale, pronunciatasi di recente in materia di vaccinazioni obbligatorie contro il rischio di malattie infettive per i minori di sedici anni, ha chiarito che si può imporre un trattamento sanitario quando questo sia diretto a migliorare lo stato di salute di chi vi è assoggettato e sia, altresì, funzionale a preservare quello degli altri, sempre che eventuali effetti negativi sulla salute siano limitati a quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, siano tollerabili in considerazione delle circostanze del caso concreto (Corte Cost., sent. 18 gennaio 2018, n. 5).

Anche nell’ipotesi della pandemia da SARS-CoV-2, quindi, potrebbe ragionevolmente valutarsi l’obbligatorietà del vaccino in considerazione delle migliaia di morti e dell’elevata diffusività del virus che, ancora a distanza di un anno, continua a causare delle forti restrizioni alle libertà fondamentali di tutti, imponendo, di fatto, un radicale cambiamento delle attività quotidiane.

Tale problematica, inoltre, appare di grandissimo rilievo stante il fatto che nel nostro territorio si stanno diffondendo delle varianti del Covid-19, in particolare quella inglese e quella brasiliana, che risultano avere una maggiore trasmissibilità e, dunque, potrebbero causare un aumento del numero delle infezioni.

Si sta valutando, pertanto, di imporre l’obbligatorietà del vaccino nel mondo del lavoro e, specialmente, in quei settori in cui il lavoratore, dipendente pubblico o privato, entra in contatto con un numero elevato di persone: potrebbero, quindi, essere sottoposti a profilassi obbligatoria coloro che esercitano la professione medica, i docenti delle scuole ed i rappresentanti delle forze dell’ordine.

A questo proposito, peraltro, è opportuno considerare che l’art. 2087 c.c. prescrive che i datori di lavoro siano tenuti ad adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Tale norma, che trova il proprio fondamento nell’art. 32 Cost., è volta a salvaguardare la salute dei lavoratori mediante l’imposizione, in capo ai datori di lavoro, di obblighi di sicurezza che devono permanere durante lo svolgimento della prestazione: così, i datori di lavoro sono tenuti ad adottare e mantenere dei presidi antinfortunistici per preservare i lavoratori dai rischi connessi alla specifica attività prestata e, altresì, sono obbligati ad adeguare gli strumenti di protezione ai progressi tecnologici e della scienza.

Tra l’altro, non deve dimenticarsi che lo stesso legislatore ha ricondotto il rischio Covid ad un rischio di natura professionale, e ciò ha imposto ai datori di lavoro l’obbligo di adottare ulteriori e specifici protocolli di sicurezza, concordati con le parti sociali, per consentire lo svolgimento in sicurezza dell’attività produttiva.

In questo contesto, quindi, potrebbe risultare ragionevole che i datori di lavoro impongano la profilassi contro il Covid-19 al fine di garantire la salute di tutti i propri dipendenti, anche in considerazione del fatto che l’art. 42, comma secondo del D.L. 18/2020, cosiddetto “Cura Italia”, ha prescritto che l’infezione da coronavirus, contratta dai lavoratori nell’esercizio delle proprie mansioni, debba essere considerata una malattia professionale e, pertanto, l’INAIL è tenuto ad erogare le prestazioni  dovute.

Tale soluzione appare sicuramente coerente con il principio di solidarietà sancito dalla Costituzione che, pur tenendo in debita considerazione la libertà individuale di ciascuno, non può non attribuire preminente rilevanza alla tutela della salute pubblica e, di conseguenza, della collettività.

Viola Zuddas, Avvocato