L’art. 8, comma 1, L. 8 marzo 2017 n. 24 stabilisce che «Chi intende esercitare un’azione innanzi al giudice civile relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria è tenuto preliminarmente a proporre ricorso ai sensi dell’articolo 696-bis del codice di procedura civile dinanzi al giudice competente».

Ancora, il secondo comma dispone che «La presentazione del ricorso di cui al comma 1 costituisce condizione di procedibilità della domanda di risarcimento […]».

Dalla semplice lettura del dettato normativo di cui ai capoversi che precedono si evince che il giudice competente a conoscere e decidere della vertenza avente ad oggetto il risarcimento danni da responsabilità medica è quello civile e che l’atto introduttivo del giudizio deve rivestire la forma del ricorso.

Devesi, altresì, evidenziare che l’art. 696-bis c.p.c., ai fini della sua ammissibilità, non richiede la condizione dell’urgenza, posto che la sua funzione non è quella di assicurare il futuro esercizio del diritto alla prova da eventuali dispersioni o alterazioni che possano inficiare la successiva azione ordinaria.

Certamente, il ricorso in parola dovrà essere considerato ammissibile quando il perimetro del thema decidendum è ben delineato, così da permettere al giudice di valutare rilevanza e utilità della consulenza ai fini della decisione, oltre a facilitare i termini della discussione in vista della eventuale conciliazione e individuare la situazione sostanziale in relazione alla quale il giudice è chiamato a valutare la rilevanza della prova e, di conseguenza, l’esistenza della situazione stessa ai fini dell’interruzione della prescrizione, pur essendo soltanto eventuale il giudizio di merito.

Infine, in ordine a quale sia il giudice competente a conoscere della vertenza viene in soccorso il comma 3 dell’art. 696 c.p.c., cui fa rinvio il comma 1 dell’art. 696-bis c.p.c., in forza del quale il giudice competente dovrebbe essere il presidente del tribunale oppure il giudice di pace. Sennonché, l’art. 8, comma 3, L. 8 marzo 2017 n. 24 stabilisce che il successivo processo instaurato a seguito del fallimento del tentativo di conciliazione debba obbligatoriamente seguire le forme di cui agli art. 702-bis ss. c.p.c, che a loro volta possono applicarsi soltanto innanzi al tribunale in composizione monocratica.

Per quanto riguarda la competenza territoriale, deve condividersi la posizione di chi ha correttamente osservato che la definitiva e generalizzata qualificazione della responsabilità della struttura sanitaria come contrattuale, dovrebbe comportare, in ogni caso, l’applicabilità del criterio di competenza esclusivo del “consumatore”. Nulla cambia, invece, per le controversie tra medico e paziente, il cui foro continua ad essere rappresentato dal luogo di residenza del paziente.

Il procedimento

Venendo agli aspetti procedurali, l’art. 696-bis c.p.c. più che dettare le specifiche norme procedimentali opera una serie di rinvii ad altre disposizioni, che, a loro volta, rinviano ad altre ancora. Così, infatti, il comma 1 rimanda all’art. 696, comma 3, che rimanda agli art. 694 e 695, «in quanto applicabili», mentre l’ultimo comma richiama gli art. 191-197 cpc, «in quanto compatibili».

Riassumendo.

Proposta l’istanza, il giudice designato fissa con decreto l’udienza e stabilisce il termine perentorio per la notificazione del decreto e del ricorso (attività questa, che produce l’effetto dell’interruzione della prescrizione, ex art. 445-bis c.p.c., comma 3,). Il giudice, assunte, quando occorre, sommarie informazioni, provvede in contraddittorio tra le parti, nominando il consulente tecnico con ordinanza non impugnabile, formulando i quesiti e fissando l’udienza nella quale il consulente deve comparire. L’ordinanza, contenente l’invito a comparire all’udienza fissata dal giudice, è notificata a cura del cancelliere al consulente tecnico. All’udienza il consulente presta giuramento e il giudice fissa la data per l’inizio delle operazioni peritali. Possono essere nominati più consulenti soltanto in caso di grave necessità o quando la legge espressamente lo dispone.

Valgono, inoltre, le disposizioni in tema di astensione e ricusazione (con ulteriore indiretto rinvio agli art. 63 e 51 c.p.c., anche se elementi in tal senso possono trarsi anche dall’art. 15 della legge citata), di rinnovazione delle indagini e di sostituzione del consulente, di richiesta di informazioni e chiarimenti da quest’ultimo alle parti ed eventualmente a terzi, di fissazione del termine per il deposito della relazione, ed in generale in tema di tutela del contraddittorio delle parti, comprese quelle relative alla possibilità di nominare consulenti di parte.

Con riguardo alla attività del consulente, va evidenziato che il consulente non è chiamato ad accertare l’esistenza del diritto dedotto, poiché tale accertamento, inteso nel senso di attività cognitiva relativa alla triade norma-fatto-effetto, spetta soltanto al giudice. Pertanto, il consulente, in primo luogo, deve procedere alla attività cognitivo-valutativa tecnica che gli è propria e, in secondo luogo, «ove possibile», deve tentare la conciliazione (la quale non costituisce attività di accertamento).

Differenze tra consulente e mediatore

Il ruolo del consulente tecnico nell’ambito del procedimento istruttorio anticipato e quello del mediatore presentano elementi di diversità.

Il consulente è per sua natura un esperto, dotato delle conoscenze specialistiche necessarie alla soluzione delle questioni tecniche rilevanti ai fini della definizione della controversia. Il mediatore, invece, è un soggetto chiamato ad assistere le parti nella ricerca di una soluzione consensuale della controversia, ad egli è affidato il compito di formulare una proposta conciliativa soltanto se le parti lo richiedano espressamente.

Ad ogni modo, la divaricazione tra le due figure – sotto l’aspetto della loro funzione conciliativa – è sempre minore. Difatti, posta la loro funzione, entrambi devono possedere necessariamente capacità e competenze in materia di tecniche di conciliazione e mediazione, oltre al possesso di requisiti di imparzialità e indipendenza.

Tuttavia:

  • Il consulente è chiamato a svolgere accertamenti, indagini tecniche e a compiere valutazioni in merito ai fatti controversi che certamente non rientrano tra i compiti del mediatore.
  • Nella mediazione, ai fini della soluzione del conflitto, vengono in rilievo non tanto le pretese giuridiche prospettate dalle parti, ma gli interessi concreti ad esse sottostanti.
  • Al mediatore è imposto un generale obbligo di riservatezza, mentre nessuna garanzia in tal senso è prevista per il procedimento di cui all’art. 696-bis c.p.c.
  • Le dichiarazioni o informazioni, assunte nel procedimento di mediazione, sono coperte da riservatezza e sono inutilizzabili nell’eventuale giudizio successivo avente il medesimo oggetto, salvo il consenso della parte che quelle dichiarazioni e informazioni ha reso. Di converso, gli esiti della consulenza tecnica espletata in sede preventiva, ove questa non si concluda con una conciliazione, possono essere utilizzati nel successivo giudizio di merito. (https://www.questionegiustizia.it)
Francesco Sanna, Avvocato

In alternativa al “filtro” della mediazione, di cui abbiamo analizzato gli aspetti essenziali nell’articolo del mese di ottobre (https://www.forjus.it), il danneggiato può scegliere di far ricorso all’altro strumento alternativo dell’accertamento tecnico preventivo con funzione conciliativa disciplinato dall’art. 696-bis c.p.c.

L’utilizzo di tale strumento, il cui impianto normativo scaturito a seguito della riforma del 2017 tradisce una netta predilezione da parte del legislatore rispetto alla mediazione, sancisce l’indubbio vantaggio – sul piano istruttorio – che, in caso di naufragio del tentativo di conciliazione, la relazione del consulente nominato dal giudice potrà essere acquisita nel successivo ed eventuale processo.

L’importanza e la centralità della relazione di cui all’accertamento tecnico preventivo ai fini della composizione della lite è confermata dal fatto che il legislatore ha stabilito un necessario raccordo tra detto “filtro” e l’eventuale processo, laddove quest’ultimo si svolge secondo le forme del rito sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis e ss. c.p.c.

Tale collegamento è figlio di una scelta ben precisa operata dal legislatore.

Difatti il rito sommario, essendo per lo più destinato a dirimere le controversie che non presentano una particolare complessità e che non richiedono un’istruttoria approfondita, affiancato al previo svolgimento dell’accertamento tecnico (conclusosi senza il raggiungimento di un accordo tra le parti) e all’acquisizione della relazione peritale consente di grandemente i tempi della trattazione e della decisione, non dovendo sottostare alle regole e tempistiche del rito ordinario di cognizione regolato dagli artt. 163 e ss. c.p.c.

Venendo all’analisi della ratio dell’istituto di cui si sta trattando corre l’obbligo di evidenziare come questi ricomprenda al suo interno una “doppia anima”, poiché svolge tanto una funzione istruttoria, quanto una conciliativa – con prevalenza di quest’ultima rispetto alla prima.

Ciò si evince da diversi elementi, quali:

  • la rubrica della norma, «consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite»;
  • l’applicabilità di tale procedura «anche al di fuori delle condizioni di cui al primo comma dell’articolo 696» e, quindi, in assenza dell’urgenza, il che sottrae alla consulenza tecnica la funzione cautelare di salvaguardia del futuro esercizio del diritto alla prova, propria dei mezzi di istruzione preventiva;
  • il tenore complessivo dell’art. 696-biscpc;
  • l’efficacia di titolo esecutivo conferita al verbale di conciliazione e l’ampliamento massimo delle sue potenzialità esecutive, alla stessa stregua di altre ipotesi in materia di conciliazione (ad esempio, proprio quella di cui al d.lgs 28/2010);
  • l’agevolazione sul piano fiscale, consistente nell’esenzione dal pagamento dell’imposta di registro, che rappresenta un incentivo alla conciliazione.

Pertanto, si può serenamente affermare, senza tema di smentita, che la consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, ex art. 696-bis c.p.c., è stata concepita soprattutto quale strumento per stimolare il raggiungimento di un accordo tra le parti, così assolvendo anche alla fondamentale funzione deflativa del contenzioso. Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

Di fronte all’instaurazione della procedura in parola il giudice è chiamato a porre in essere un vaglio preliminare, in base ad un giudizio prognostico e probabilistico sulla base della fattispecie prospettata, sull’opportunità o meno di nominare un consulente tecnico d’ufficio che riesca a dirimere la controversia in maniera bonaria. Di converso, qualora il giudice non ritenga – perché altamente improbabile – che il consulente riesca a condurre le parti ad una conciliazione, potrà disattendere l’istanza della parte che ha promosso il procedimento ex art. 696-bis c.p.c.

In dipendenza di quanto sopra esposto, la riforma del 2017 ha esaltato la funzione conciliativa dell’istituto in analisi, perché l’osservanza del procedimento è condizione di procedibilità, il cui fine quello di risolvere la controversia senza una decisione giudiziale.

Ciò non toglie che il legislatore si sia preoccupato anche dell’eventualità in cui l’accordo non sia raggiunto, perché, come detto sopra, ha provveduto a disciplinare il raccordo con il successivo processo di cognizione.

Ad ogni modo, resta il fatto che il “filtro” in parola presenta ben pochi aspetti strettamente giudiziali, poiché soggetto deputato a tentare la conciliazione è il consulente, mentre il giudice interviene solo nel momento della nomina del consulente stesso e del conferimento di efficacia esecutiva del verbale di conciliazione. (https://www.questionegiustizia.it)

Francesco Sanna, Avvocato

Come già detto nella “PARTE 1” dell’articolo del mese scorso, sempre dedicato al processo civile per responsabilità medica, il soggetto leso, o in caso di morte i suoi familiari, che si determina ad adire l’autorità giudiziaria al fine di ottenere il risarcimento dei danni patiti per “mala sanità” è obbligato ad esperire preliminarmente uno dei due procedimenti conciliativi.

Specificatamente, con l’entrata in vigore del d.lgs 28/2010 ha preso sempre più piede una modalità di gestione del conflitto volto al raggiungimento di una transazione tra le parti coinvolte.

La scelta per la mediazione, al posto dell’accertamento tecnico preventivo, attesta una sorta di preferenza per un percorso collaborativo che prescinde dal piano meramente giuridico e tecnico, consentendo alla parte istante di imbastire una comunicazione con la parte convocata (struttura sanitaria, sanitario e/o loro assicurazioni).

Detto ciò non può non rilevarsi che le liti in subiecta materia possono essere soggettivamente molto complesse, poiché spesso coinvolgono non soltanto il paziente e il medico o il paziente e la struttura sanitaria o il paziente, il medico e la struttura sanitaria, ma anche le compagnie di assicurazione, nonché, in caso di evento morte, i familiari del defunto. Ne deriva la compresenza di un coacervo di interessi tra di loro contrapposti non agevolmente coordinabili.

In dipendenza di quanto appena evidenziato si è deciso di suddividere il procedimento di mediazione in due fasi fondamentali: la prima, atta a favorire la comunicazione tra i soggetti coinvolti e il loro reciproco riconoscimento; la seconda, diretta a trovare un punto di incontro tra le parti sul piano risarcitorio, attraverso l’esame degli aspetti medico-legali del caso di specie e di tutti gli altri elementi che potrebbero influire su tale determinazione.

I vantaggi di addivenire ad un accordo di mediazione non sono pochi.

Difatti, l’assistenza di un mediatore qualificato e competente e la presenza di un clima collaborativo tra i soggetti coinvolti, che la mediazione dovrebbe contribuire ad instaurare, costituiscono certamente motivi validi per indurre la parte che chiede l’ottenimento di un risarcimento a farla propendere per la scelta del filtro in questione.

Ancora, altri aspetti di non secondaria importanza in caso di mediazione sono le garanzie di riservatezza e confidenzialità e gli incentivi di carattere fiscale che il procedimento di mediazione assicura, oltre alla possibilità di porre in esecuzione il verbale di mediazione e l’allegato accordo.

Di converso gli svantaggi che tale tipo di scelta procedurale porta con sé sono l’onerosità del procedimento per scaglioni di importo elevato, l’eventuale incompetenza dei mediatori rispetto alla specifica tipologia di contenzioso, la condanna al pagamento delle spese in caso di rifiuto della proposta conciliativa e di successiva condanna da parte del giudice ad un importo corrispondente a quello indicato nella proposta rifiutata.

L’efficacia della mediazione, com’è facile intuire, si fonda in primo luogo sulla possibilità di riunire attorno ad un unico tavolo di discussione tutti i soggetti coinvolti nella vicenda oggetto di lite, sia per favorire la corrispondenza soggettiva e oggettiva del procedimento con il successivo eventuale processo – così soddisfacendo la condizione di procedibilità – ma anche perché aumentino le possibilità di una composizione bonaria e stragiudiziale della vertenza.

L’art. 8, comma 4-bis, d.lgs 28/2010 stabilisce che «Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile. Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall’articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio».Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

In tema di conseguenze derivanti dalla mancata partecipazione di una delle parti al procedimento di mediazione si deve precisare che queste avranno luogo, salvo casi di “giustificato motivo”.

Alla luce di quanto testè esposto ci si deve ora interrogare circa la portata del significato della locuzione “giustificato motivo”, che la norma non specifica se di tipo oggettivo o soggettivo.

Partendo dalla considerazione che per “giustificato motivo” non possa essere intendersi la asserita infondatezza della pretesa avversaria e/o il personale scetticismo nei confronti dell’istituto della mediazione, proviamo a individuare – come fatto dalla migliore dottrina e giurisprudenza – alcune ipotesi in cui si dovrebbe ritenersi sussistere il “giustificato motivo”:

  1. incompetenza territoriale dell’organismo di mediazione adito la cui sede operativa deve trovarsi il «luogo del giudice territorialmente competente per la controversia»;
  2. proposizione della domanda di mediazione innanzi a un organismo diverso da quello individuato convenzionalmente dalle parti nella clausola di mediazione;
  3. mancanza o invalida comunicazione alla controparte, imputabile all’organismo o alla parte istante;
  4. impossibilità oggettiva della parte convocata di partecipare al primo incontro;
  5. ricezione di una istanza di mediazione dalla quale non si evinca la materia del contendere.

Infine, si precisa che per poter ritenere espletata la condizione di procedibilità (oltre alla mancata partecipazione del chiamato per ragioni non giustificate) occorre tenere conto di quanto disposto dal citato art. 5, comma 2-bis, secondo cui «la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo».

E’ evidente che la fattispecie di mancato accordo costituisce ipotesi distinta e ben diversa da quella di mancata partecipazione.

Le ragioni che possono condurre al mancato raggiungimento di un accordo di mediazione sono le più disparate. In sintesi possono essere distinte in:

  1. ragioni attinenti alla funzionalità e/o efficienza dell’organismo di mediazione adito o alla serietà, imparzialità, competenza del mediatore designato o alla idoneità dei luoghi della mediazione o infine o a mere esigenze di opportunità;
  2. ragioni attinenti alla fondatezza o no della pretesa.

(https://www.questionegiustizia.it)

Francesco Sanna, Avvocato

La Legge 8 marzo 2017, n. 24, intitolata: «Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie», si occupa di un settore del contenzioso civile investito da forti ed inevitabili – stante l’oggetto della lite – aspetti di conflittualità del tutto peculiari, quanto ad intensità emotivo-relazionale dei soggetti coinvolti, a complessità tecnico-giuridica della materia, a risvolti economico-sociali spesse volte di notevole entità, ecc.

In aggiunta alle appena richiamate difficoltà insite nell’affrontare un procedimento avente ad oggetto la materia in parola, si osservano le ulteriori criticità connesse alla gestione della lite dovute alla frequente numerosità dei soggetti coinvolti e alle ricadute in ambito penalistico della condotta offensiva.

Venendo alle novità di carattere processuale introdotte dalla riforma del 2017, queste possono essere così sintetizzate.

  1. Introduzione di un doppio “filtro” di procedibilità (accertamento tecnico preventivo con funzione conciliativa ex 696-bisc. c.p.c. e, in via alternativa e non cumulativa, il procedimento di mediazione ex D. L.vo n. 28/2010).
  2. Il necessario esperimento del procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis c.p.c. nel caso in cui la scelta del “filtro” di procedibilità ricada sull’accertamento tecnico preventivo con funzione conciliativa.
  3. La possibilità di esperire in via diretta l’azione di risarcimento danni nei confronti dell’impresa di assicurazione della struttura sanitaria ovvero di quella del professionista.
  4. Il diritto all’azione di rivalsa da parte della struttura o dell’impresa di assicurazione nei confronti dell’esercente la professione sanitaria, ferma la sussistenza delle condizioni sancite dalla legge.
  5. L’esperibilità dell’azione di responsabilità amministrativa dal punto di vista contabile da parte del pubblico ministero contro l’esercente la professione sanitaria dipendente dalla struttura sanitaria pubblica.

La legge in commento è anche intervenuta sulla qualificazione del titolo di responsabilità della struttura sanitaria e dell’esercente la professione sanitaria, stabilendo che la struttura risponde a titolo contrattuale, mentre l’esercente a titolo extracontrattuale (salvo che questi abbia stipulato un contratto di prestazione d’opera professionale direttamente con il paziente, rispondendo, in questo caso, a titolo di responsabilità contrattuale).

Il quadro delle responsabilità delineato sopra comporta, almeno sulla carta, un alleggerimento dell’onere della prova in capo al danneggiato nell’ipotesi in cui questi decida di agire contro la struttura sanitaria (potendo limitarsi ad allegare l’inadempimento e il fatto costitutivo rappresentato dal contratto di spedalità, così scaricando sul convenuto l’onere di provare il fatto impeditivo consistente nell’avere adottato la diligenza dovuta nell’esecuzione della prestazione – osservanza “linee guida” – oppure nell’impossibilità ad effettuare la prestazione – impossibilità sopravvenuta) ed un appesantimento nell’ipotesi in cui decida di agire contro l’esercente (avendo egli il più gravoso compito di provare, in tal caso, oltre al nesso eziologico tra fatto costitutivo ed evento dannoso, anche la colpa o il dolo del danneggiante).

Ad ogni buon conto, si tiene a precisare che ruolo fondamentale nella valutazione della responsabilità e precedentemente nella individuazione dei doveri di allegazione probatoria è svolto dalle “raccomandazioni contenute nelle linee guida” e dalle “buone pratiche clinico-assistenziali” (ancor più del precedente quadro di riferimento normativo di cui alla “Legge Balduzzi”).


L’alternatività tra il procedimento di accertamento tecnico preventivo con funzione conciliativa (art. 696-bis c.p.c.) e quello di mediazione (D.L.vo n. 28/2010)

L’art. 5, comma 1, D.L.vo n. 28/2010, stabiliva che le controversie in materia di ‹‹responsabilità medica›› fossero assoggettate alla condizione di procedibilità del previo esperimento del procedimento di mediazione. In dipendenza dell’ambiguità di tale espressione, la riforma del 2013 (D.L. n. 69/2013, conv. con modif. con la Legge n. 98/2013) ha esteso l’ambito di applicazione del “filtro” de quo alle controversie in materia di «responsabilità sanitaria».

Il legislatore del 2017, constatata la scarsa percentuale di successo della mediazione in questa subiecta materia – dovuta perlopiù alla mancata partecipazione delle strutture sanitarie e delle imprese di assicurazione a tale procedura – ha optato per l’utilizzo di un altro strumento volto alla conciliazione tra le parti: l’accertamento tecnico preventivo diretto alla composizione della lite, disciplinato dall’art. 696-bis c.p.c., imponendo il suo esperimento in via preliminare al processo, ma allo stesso tempo in alternativa rispetto alla procedura di mediazione.

Così, allo stato attuale, la proposizione di una domanda giudiziale di risarcimento dei danni nei confronti della struttura sanitaria o dell’esercente la professione sanitaria deve essere necessariamente preceduta dall’esperimento di un procedimento volto alla conciliazione tra i soggetti coinvolti, o in sede di mediazione oppure in sede di accertamento tecnico preventivo.

E’ indubbio che tale istituto e quello della mediazione svolgano (sia pure solo in parte) la medesima funzione, perseguendo entrambi finalità conciliative e deflattive. Altrettanto certo è che l’efficacia dell’accordo di conciliazione ex artt. 11 e 12 D.L.vo n. 28/2010 non presenti differenze rispetto a quella dell’accordo raggiunto all’esito della consulenza tecnica preventiva, sostanziandosi entrambi quali veri e propri accordi negoziali, ex art. 1372 c.c., suscettibili sul piano esecutivo, ai sensi dell’art. 474, commi 2 e 3, c.p.c., a costituire titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale per esplicita previsione di legge.

Evidenziati i punti di affinità tra i due istituti in esame, è doveroso sottolineare anche le importanti differenze sul piano istruttorio.

Difatti, soltanto la relazione tecnica redatta dal consulente nominato dal giudice può fare ingresso nel successivo processo per il tramite dell’istanza di parte, mentre quella svolta dall’esperto eventualmente nominato nel procedimento di mediazione può al massimo costituire una prova atipica la cui acquisizione nel processo e la successiva valutazione dipende dal prudente e insindacabile apprezzamento del giudice.Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

Alla luce di quanto appena esposto, i vantaggi del procedimento ex art. 696-bis c.p.c. sono evidenti; tanto più che la dichiarata finalità perseguita dal legislatore è proprio quella di favorire la formazione di un risultato istruttorio di natura tecnica acquisibile in una sede processuale destinata a svolgersi secondo le più semplificate forme degli artt. 702-bis ss. c.p.c.

Infine, in ordine ai procedimenti “filtro” devesi ricordare come il legislatore abbia ritenuto di escludere (in via ulteriormente alternativa) la procedura della negoziazione assistita, art. 3, D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni nella Legge 10 novembre 2014, n. 162, che nelle controversie risarcitorie in materia sanitaria non deve essere obbligatoriamente esperita anche se avente ad oggetto domande di pagamento di somme non eccedenti € 50.000,00.

Francesco Sanna, Avvocato

I possibili contenziosi da COVID-19:

1) La responsabilità delle strutture sanitarie per carenza organizzativa

In tale fattispecie potrebbero rientrare le pretese di coloro che ritengono di aver subito un danno derivante dalla mancata o tardiva ospedalizzazione nei reparti di terapia intensiva a causa dell’eccessivo affollamento dovuto alla presenza dei malati di COVID-19, così vedendosi pregiudicata la possibilità di una guarigione.

Pare evidente che tali casi siano figli di problematiche di tipo organizzativo e non rientrino nella “classica” casistica della colpa medica intesa come imprudenza, negligenza e imperizia dei sanitari.

Pertanto, al fine di verificare la sussistenza o meno della responsabilità della struttura sanitaria in presenza di un caso di tal fatta dovrà essere analizzata la normativa vigente in materia.

Tuttavia, sul punto la disciplina specialistica nulla dice.

Di converso, la dottrina si è occupata della tematica inerente la responsabilità della struttura sanitaria per carenze di tipo organizzativo-gestionale, basando i propri ragionamenti sul rischio inerente all’organizzazione di servizi di cura e assistenza alla salute delle persone.

Nonostante il fatto che la norma di riferimento sia l’art. 1218 c.c. (responsabilità contrattuale), l’onere di provare l’impossibilità della prestazione in capo al debitore/ospedale per fatto a lui non imputabile configurerebbe una vera e propria figura di responsabilità oggettiva gravante sulla struttura sanitaria per non essersi dotata di una organizzazione oggettivamente adeguata.

La configurabilità o meno di tale responsabilità deve passare necessariamente attraverso la verifica della prevedibilità del rischio che ha determinato la situazione di emergenza sanitaria. Quindi, dovrebbe essere svolta una indagine approfondita per appurare se, quando si è parlato per la prima volta di coronavirus in Cina, potevano prevedersi i risvolti drammatici che poi si sono concretizzati e che, quindi, potrebbero giustificare l’applicazione di una responsabilità di tipo oggettivo.

Sul punto, pare doveroso ricordare che già nel gennaio 2020 era all’ordine del giorno la discussione e l’approvazione del “Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale”, sia a livello ministeriale che regionale, il quale prevedeva misure rigide e decise per limitare e contenere la trasmissione delle infezioni in comunità. Quindi, in un eventuale contenzioso, il danneggiato potrebbe far leva sull’argomento della non imprevedibilità del rischio e sulla conseguente sussistenza della responsabilità sanitaria. Qualora, invece si ritenesse di applicare la norma sullo stato di necessità, escludendo dal campo le regole della responsabilità civile, residuerebbe il beneficio del riconoscimento di un’indennità ‹‹la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice››.

In sostanza, in luogo del risarcimento da ordinaria responsabilità della struttura sanitaria sarebbe erogato un indennizzo da parte dello Stato: in coerenza con i doveri di solidarietà sociale costituzionalmente garantiti ex art. 2 Cost.

2) I danni richiesti dagli eredi del personale sanitario

Altra situazione che pare potersi concretizzare è quella riferita al risarcimento richiesto dagli eredi dei cosiddetti “eroi” del coronavirus che nell’adempimento dei propri doveri professionali hanno perso la vita o hanno riportato lesioni personali.

Tale richiesta troverebbe fondamento nel fatto che la struttura sanitaria, e più in generale il Servizio Sanitario Nazionale, non avendo dotato il personale medico e quello paramedico degli opportuni strumenti di prevenzione e protezione, incorrerebbe in responsabilità per quanto a questi occorso.

Anche tale ipotesi presenta aspetti di similitudine con quella trattata al punto 1) del presente articolo, stante la straordinarietà ed eccezionalità della situazione venutasi a creare che non ha permesso a chi di dovere (strutture e Ministero) di dotare di un numero sufficiente e adeguato di strumenti di protezione il personale sanitario.

Tuttavia, devesi evidenziare che la maggior parte dei decessi del personale sanitario ha colpito i medici di base (abbandonati dalle istituzioni e lasciati senza approvvigionamento di strumenti elementari di protezione, senza istruzioni o linee guida per segnalare e trattare i casi sospetti), categoria riguardo alla quale una valutazione molto condivisa sottolinea gli errori compiuti nell’ultimo decennio dalla politica sanitaria. Soprattutto, pare meritevole di censura il loro sostanziale ridimensionamento nell’operare come primo intervento, lasciando così alle strutture ospedaliere il ruolo centrale di tutta l’organizzazione sanitaria, con tutte le deficienze che si sono palesate nell’affrontare la crisi pandemica che ha colpito l’intera Italia, oltre a tutto il mondo.

Alla luce delle superiori considerazioni, in questo caso, l’imprevedibilità e l’eccezionalità della situazione non pare essere un criterio convincente per escludere la responsabilità della struttura sanitaria: così determinandosi una responsabilità medica che in questa situazione sembra difficilmente contestabile.

Anche in questo caso gli organi giudicanti potrebbero forse non ritenere applicabili i comuni rimedi risarcitori e prevedere, alla stessa stregua di quanto indicato nella fattispecie di cui al punto 1), che ai familiari del personale medico e paramedico che abbiano perso la vita o abbiano in ogni caso riportato lesioni spetti una indennità calcolata all’esterno del perimetro della responsabilità civile.

3) I danni pretesi dai familiari delle persone decedute in RSA

Altra fattispecie che potrebbe essere oggetto di controversie e conseguenti responsabilità da colpa medica è quella che ha coinvolto le persone ospiti delle RSA, le quali, essendo per definizione soggetti più fragili dei normali degenti, richiedono particolari cure e più in generale un protocollo maggiormente stringente e plasmato sulla loro condizione di soggetti “deboli”.

In merito alla sussistenza di profili di responsabilità si possono riscontrare, da un lato, argomenti legati alla carenza organizzativa, e, dall’altro lato, l’esistenza di una vera e propria colpa specifica per imprudenza e/o negligenza, sostanziatasi nell’aver accolto all’interno delle RSA pazienti anziani contagiati non gravi che hanno contagio a loro volta altri soggetti, poi deceduti.

Questa decisione, all’evidenza imprudente, è stata all’origine di tantissimi decessi.

Ragion per cui la fondatezza di una responsabilità medica in fattispecie di tal fatta pare indiscutibile: così da determinare in capo ai danneggiati il diritto a vedersi riconosciuti un risarcimento “pieno” e non solo di natura indennitaria, come nei casi finora analizzati.

4) Le istanze risarcitorie avanzate dai malati ordinari ai quali è stato precluso ritardato un trattamento sanitario a causa dell’affollamento della struttura di malati Covid-19

La casistica in esame comprende tutte quelle fattispecie non rientranti nelle precedenti e, pertanto, residuali.

In sostanza, questa comprenderebbe tutti quei soggetti affetti da patologie diverse dal Covid-19, ai quali per la situazione di affollamento e di emergenza sanitaria è stato negato o rimandato il trattamento sanitario di cui abbisognavano.

Nella casistica in questione, ancor più che nelle prime due affrontate, vengono in discussione profili intrinsecamente collegati alla carenza organizzativa della struttura che sopraffatta dall’urgenza della pandemia ha finito per trascurare gli altri pazienti anch’essi bisognosi di trattamenti sanitari.

Il potenziale attore di una controversia, rientrante nel perimetro delineato, è un paziente comune, non affetto da coronavirus che potrebbe lamentare un peggioramento delle proprie condizioni di salute per essere stato “trascurato” a causa dell’onda emergenziale.

In questo caso, si evidenzia che il difetto organizzativo – stimato come imprevedibile nel secondo caso affrontato – si presenta viceversa come altamente prevedibile, poiché non può ritenersi ammissibile che una struttura sanitaria svolga la gran parte della propria attività solo a vantaggio di una particolare classe di pazienti, non essendo in grado di proteggere il diritto alle cure di tutti, così come costituzionalmente sancito. (https://giustiziacivile.com/danno-e-responsabilita/articoli/la-responsabilita-sanitaria-e-i-possibili-contenziosi-da-covid – La responsabilità sanitaria e i possibili contenziosi da Covid, di Giulio Ponzanelli).

Francesco Sanna, Avvocato

In linea di principio, le ipotesi di responsabilità medica astrattamente ipotizzabili nella cura dei malati di COVID-19 non differiscono da quelle nelle quali possono generalmente incorrere i sanitari impegnati a contrastare una qualsiasi altra patologia infettiva e non

Tuttavia, l’attuale emergenza epidemica ha imposto il confronto con elementi di criticità fino ad oggi sconosciuti, quali: il confrontarsi con un virus e con una malattia ancora oggi non conosciuti appieno e, purtroppo, di facile e veloce diffusione; la smisurata e improvvisa quantità di malati si è rivelata superiore rispetto alla disponibilità delle risorse necessarie ad affrontarla, dai dispositivi di protezione individuale agli apparecchi di ventilazione forzata ai posti di terapia intensiva; l’insufficienza di sanitari specializzati ha determinato le strutture a far ricorso a medici appartenenti ad altre specializzazioni, che si sono così trovati ad operare in campi fuori dalle proprie competenze e per giunta senza copertura assicurativa.

Alla luce del quadro appena delineato, gli operatori del diritto hanno fin da subito evidenziato la possibile nascita del problema di una abnorme ed ingiustificata esposizione giudiziaria in danno del personale sanitario. Tant’è che erano state presentate varie proposte di emendamento del decreto “Cura Italia”, le quali avevano come fine ultimo quello di introdurre norme specifiche atte a limitare le fattispecie di responsabilità medica per eventi avversi alla salute dei pazienti colpiti dal COVID-19.

Con il ritiro di detti emendamenti la questione è rimasta irrisolta e ad oggi vi sono sostanzialmente due correnti di pensiero: una secondo la quale il nostro ordinamento è già strutturato in modo da evitare gli eccessi paventati e l’altra a mente della quale sarebbe invece opportuno intervenire con una normativa ad hoc.

In ordine alla tematica in parola pare opportuno soffermarsi sulla portata dell’art. 2236 c.c.

L’articolo 2236 c.c., rubricato ‹‹Responsabilità del prestatore di opera››, prevede una limitazione di responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave per il prestatore d’opera professionale che si sia trovato ad affrontare «problemi tecnici di speciale difficoltà» nell’esecuzione della prestazione. Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

La norma in analisi impone, quindi, di valutare la colpa del prestatore d’opera alla luce della particolare difficoltà della prestazione nel caso concreto, costituendo così, da un lato, una specificazione della più generica nozione di diligenza professionale, di cui all’art. 1176, comma 2, c.c., e, dall’altro lato, un bilanciamento tra le opposte esigenze di non mortificare l’iniziativa del professionista col timore di ingiustificate rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista stesso.

In virtù delle considerazioni testé esposte diversi interpreti considerano il dettato di cui all’articolo 2236 c.c. quale vero e proprio argine alla proliferazione delle azioni giudiziarie contro i sanitari per addebiti da responsabilità medica nel frangente del COVID-19.

Ad ogni modo, a prescindere dall’opportunità di un tale richiamo normativo, è principio generale quello secondo cui non esiste colpa ove si ritenga che l’agente non potesse tenere una condotta difforme da quella effettivamente adottata. Il concetto di inesigibilità, del resto, costituisce da sempre il limite di imputazione della responsabilità giuridica.

In buona sostanza, calando tali principi al particolare momento storico che viviamo, si tratta di valutare se fosse esigibile, da parte degli operatori e/o della struttura sanitaria, un contegno diverso da quello tenuto nel caso concreto, in termini di impegno professionale, di disponibilità delle risorse, di previsione dell’assetto organizzativo: il tutto alla luce dell’incontestabile eccezionalità dell’evento infettivo che il nostro Sistema Sanitario Nazionale si è trovato ad affrontare. Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

E allora, stabiliti i termini della questione, è verosimile ritenere che risulterà assai arduo il riconoscimento giudiziale di una ipotesi di colpa sanitaria per vicende cliniche connesse al coronavirus, perciò il problema della responsabilità di medici e ospedali coinvolti nella lotta all’epidemia è destinato ad autolimitarsi, e troverà probabilmente agevole soluzione nella sua generalizzata esclusione, fatte salve eventuali ed episodiche fattispecie in cui si siano verificate macroscopiche violazioni delle leges artis.

D’altronde, il principio di ragionevolezza, che affonda le sue radici nell’articolo 3 della Costituzione, comporta quale corollario ineludibile il dovere di trattare in modo uguale situazioni uguali e di trattare in modo diverso situazioni diverse. Dunque, poiché la fase di emergenza per sua stessa natura non può essere considerata uguale alla situazione ordinaria, va da sé che la materia della responsabilità medica ai tempi del COVID-19 non può che essere giudicata tenendo bene a mente e in giusta considerazione lo specifico momento storico che stiamo vivendo.

Francesco Sanna, Avvocato

 

L’art. 2051 c.c. rappresenta una delle ipotesi di cosiddetta responsabilità oggettiva presenti nel nostro ordinamento, disciplinando specificatamente la responsabilità da «Danno cagionato da cose in custodia», a mente della quale un qualunque soggetto, sia esso privato o pubblico, è tenuto al risarcimento qualora la cosa sottoposta alla propria custodia abbia causato un danno ad un altro soggetto, a prescindere dal fatto che il contegno del custode sia a lui imputabile a titolo di colpa o dolo.

La peculiarità di tale fattispecie risiede nel fatto che l’evento dannoso è condizione necessaria e sufficiente a fondare la responsabilità. L’elemento oggettivo idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra danno arrecato dalla cosa e responsabilità del custode è rappresentato dal cosiddetto “caso fortuito”: dalla sua sussistenza derivano una serie di risvolti pratici sul regime dell’onere della prova.

Il fattore del “caso fortuito” attiene non ad un comportamento del responsabile, ma al profilo causale dell’evento riconducibile non alla cosa che ne è fonte immediata, ma ad un elemento esterno recante i caratteri dell’imprevedibilità e dell’inevitabilità. Così, conseguendone l’inversione dell’onere della prova in ordine al nesso causale, incombendo sull’attore/danneggiato la prova del nesso eziologico tra la cosa e l’evento lesivo e sul convenuto/danneggiante la prova del “caso fortuito”.

Effetti sul regime dell’onere probatorio

Come accennato, ciò determina effetti sul regime dell’onere probatorio. Vediamo quali.
Dall’art. 2051 c.c. si evince che grava sul danneggiato l’onere di provare il nesso eziologico tra danno subìto e bene in custodia, laddove spetterà al custode dare la prova del “caso fortuito”. Viceversa, nel caso della responsabilità aquiliana, ex art. 2043 c.c., è l’attore a dover fornire la prova del comportamento contrario alla legge, elemento questo estraneo alla struttura della fattispecie normativa di cui all’art. 2051 c.c., nella quale il fondamento della responsabilità è costituito dal rischio intrinseco della cosa e che grava sul custode, salva l’esimente del “caso fortuito”.

Pertanto, in virtù della superiore spiegazione sembrerebbe che colui che si determini a richiedere la tutela giurisdizionale, ai sensi dell’art. 2051 c.c., per i danni patiti gioverebbe di un regime probatorio “di favore”, potendo lo stesso domandare il risarcimento del danno subìto in forza del mero rapporto intercorrente tra la cosa (res) ed il soggetto investito della sua custodia, prescindendo da una condotta soggettivamente imputabile a quest’ultimo.
Tuttavia, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale sia di legittimità che di merito, il risultato desiderato dal danneggiato/attore non pare di così facile raggiungimento.

L’elemento oggettivo idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra danno arrecato dalla cosa e responsabilità del custode è rappresentato dal cosiddetto “caso fortuito”: dalla sua sussistenza derivano una serie di risvolti pratici sul regime dell’onere della prova.”Avv. Francesco Sanna, Civilista

Difatti, con la storica pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 12019/1991, si è dato riconoscimento formale alla dilagante intolleranza verso un’applicazione rigorosa e letterale dell’art. 2051 c.c., la quale prestava il fianco ai cosiddetti “risarcimenti facili”.
In particolare, il problema si è posto soprattutto nei confronti dei beni (strade) appartenenti alle Amministrazioni Pubbliche (Comuni, Province, Regioni e Stato), data la loro particolare estensione territoriale, da un lato, e la propensione a diventare facili bersagli di richieste risarcitorie fraudolente, dall’altro lato.

Ragion per cui, si è affermata, in modo assolutamente maggioritario, l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 2051 c.c. anche al caso di danno occorso sulla strada di appartenenza della P.A., gravando però sul danneggiato il serio e rigoroso onere di provare la sussistenza del nesso causale tra danno patito e bene in custodia, oltrechè di escludere l’intervento di alcun “caso fortuito”: elemento di per sé idoneo a mandare assolto L’Ente, custode della rete viaria, da responsabilità.

Tale maggiore rigidità interpretativa è testimoniata dalla particolare attenzione dei giudici circa la verifica della presenza, nelle singole fattispecie, di elementi in grado di interrompere il suddetto nesso causale, il quale può essere spezzato dalla condotta del danneggiato.
E così il contegno del danneggiato ha diversa valenza e peso rispetto alla decisione del caso concreto a seconda del grado di incidenza che questo ha avuto in ordine al verificarsi dell’evento dannoso; il tutto anche alla luce dell’applicazione dell’art. 1227, comma 1 c.c., rubricato «Concorso del fatto colposo del creditore», così «… richiedendosi una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost., sicché, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un’evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l’esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro». (Cass. Civ., ord. n. 9315/2019, conf. Cass. Civ., ord. nn. 2480-2481-2482-2483/2018 e da ultima Cass. Civ., Sez. III, ord. n. 4178/2020)

Sul solco tracciato dalla giurisprudenza di legittimità si è inserito anche il Tribunale di Cagliari, il quale ha prestato particolare attenzione alle peculiarità e alle specificità dei singoli elementi di fatto – caratterizzanti la fattispecie oggetto di decisione – in virtù di quanto allegato e provato dalle parti in causa.

Francesco Sanna, Avvocato