Coltivazione di cannabis: quando è reato?

L’art. 73, comma 1, del D.P.R. n. 309 del 1990, prevede che: “Chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’art. 17, coltiva (…) per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’art. 14, è punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26 mila a euro 260 mila“.

Con il termine di “coltivazione” si intende genericamente l’attività svolta dal soggetto in ogni fase di sviluppo della pianta, dalla semina fino al raccolto, e ciò a prescindere dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza.

Quindi, viene spontaneo domandarsi: coltivare cannabis costituisce sempre un reato?

È proprio il tema della punibilità della coltivazione di piante di stupefacente ad essere al centro, ormai da molti anni, di un acceso dibattito che ha investito anche i Giudici della Suprema Corte di Cassazione.

Da un lato, infatti, è stato sostenuto che, per ritenere integrata l’offesa al bene giuridico protetto, non rileva soltanto la quantità di principio attivo ricavabile al momento della scoperta della pianta da parte delle forze dell’ordine, ma occorre considerare, altresì, la capacità della pianta di giungere a futura maturazione e, quindi, la mera attitudine a produrre sostanza con effetto drogante.

Secondo un diverso indirizzo, invece, affinché possa configurarsi un reato, in aggiunta alla conformità della pianta al tipo botanico vietato per Legge e al principio attivo ricavabile, è necessario verificare, inoltre, se l’attività sia idonea in concreto a ledere la salute pubblica, ossia ad incrementare la disponibilità dello stupefacente e a favorirne la diffusione nel mercato.

In particolare, assumono rilievo una serie di elementi, quali: l’estensione e l’organizzazione della coltivazione; la quantità di principio attivo e il raggiungimento della “soglia” drogante, nonché l’inserimento dell’attività nel mercato degli stupefacenti e l’oggettiva destinazione della sostanza al commercio.

Il nuovo orientamento delle Sezioni Unite: la coltivazione ad “uso personale”

Alla luce del principio penalistico di offensività, secondo il quale nessuno può essere punito per un fatto che non abbia leso o posto in pericolo il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, con la sentenza n. 12348 del 16 aprile 2020, le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione hanno risolto il contrasto giurisprudenziale sorto tra i vari orientamenti poc’anzi richiamati.

A tal fine, i Supremi Giudici hanno delineato il reato di coltivazione di stupefacenti non già unicamente sulla base del citato criterio del grado di maturazione della pianta e del principio attivo ricavabile, ma in relazione al tipo di coltivazione e alla destinazione del prodotto.

In applicazione del suddetto principio, occorrerà verificare di volta in volta se si tratta di una coltivazione cd. domestica oppure di una coltivazione cd. tecnico-agraria, poiché solo in quest’ultimo caso il fatto può considerarsi penalmente rilevante e, quindi, punibile.

Nella specie, la coltivazione viene definita “domestica” e, quindi, finalizzata esclusivamente al consumo personale, quando sussistono un insieme di requisiti, come la dimensione minima della coltivazione, la rudimentalità delle tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, la mancanza di indici di un inserimento dell’attività nell’ambito del mercato degli stupefacenti e l’oggettiva destinazione di quanto prodotto all’uso personale esclusivo del coltivatore.

Ebbene, in presenza degli elementi appena menzionati, la condotta di coltivazione non configura reato e non è punibile ai sensi dell’art. 73, comma 1, D.P.R. n. 309 del 1990.

Tuttavia, se il prodotto dell’attività di coltivazione possiede degli effetti droganti può configurarsi un illecito amministrativo, in quanto il coltivatore dovrà essere considerato un mero “detentore” dello stupefacente e, pertanto, sarà assoggettato alle sanzioni previste nell’art. 75 del D.P.R. n. 309 del 1990.

Nell’ipotesi in cui la coltivazione non assume le caratteristiche che abbiamo appena visto, viene definita “tecnico-agraria”.

In questo caso, si configura il reato di coltivazione di stupefacente sia se la coltivazione è giunta a maturazione e il prodotto finale ha un principio attivo in grado di determinare un’efficacia drogante e sia se il processo di maturazione non è ancora giunto a compimento, ma la piantagione presenta tutti i requisiti per produrre in futuro la sostanza stupefacente.

In entrambi i casi, infatti, la condotta si considera idonea ad offendere il bene giuridico protetto, ossia a concretizzare il pericolo di aumento e diffusione nel mercato di sostanze stupefacenti.

Non configurano il reato di coltivazione di stupefacenti quelle condotte di coltivazione di dimensioni ridotte, svolte in forma domestica, che, per il numero esiguo delle piante e del prodotto ricavabile, nonché per la mancanza di una vera e propria organizzazione dell’attività e dell’inserimento nel mercato degli stupefacenti, risultano destinate all’uso esclusivamente personale del coltivatore. Avv. Claudia Piroddu, Penalista

In ogni caso, occorrerà valutare se la condotta tipizzata dalla norma incriminatrice, per mezzi, modalità, circostanze dell’azione o per qualità e quantità della sostanza è di lieve entità, poiché in tale ipotesi potrà applicarsi una fattispecie di reato meno grave, con conseguente riduzione della pena e possibilità di accedere a taluni benefici di Legge.

Claudia Piroddu, Avvocato

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