La figura professionale dell’influencer • Parte 2

Diffamazione sui social: responsabilità diretta e dei provider alla luce della normativa interna e Comunitaria

La diffusione di internet e, ancora più, la nascita dei social network, se da un lato ha apportato numerosi benefici tra i quali, la rapida e capillare circolazione delle informazioni, nonché la nascita di nuove professioni, come quella dell’influencer, d’altra parte, soprattutto nell’ultima decade, ha comportato il notevole aumento degli illeciti commessi dagli utenti del web.

La casistica è variegata: si passa dalla sostituzione di persona, alla diffamazione a mezzo internet, all’accesso abusivo al sistema informatico, al cyber bullismo o, ancora, alla pedopornografia.

In particolare, sempre più frequenti sono le condotte di diffamazione perpetrate tramite l’uso dei social network che all’evidenza risultano facilitate dalla possibilità, per un numero notevole di utenti della rete, di esprimere del tutto liberamente, e senza vaglio preventivo, commenti e giudizi, talvolta connotati da carattere volgare e offensivo, o ancora, mediante la semplice diffusione di fake news.

Sebbene la Legge italiana riconosca e tuteli il diritto alla libera manifestazione del pensiero, lo stesso incontra un chiaro limite dinnanzi alle condotte che trasmodano nell’offesa dell’altrui immagine e reputazione, che, dunque, assumono rilevanza penale.

Al riguardo, la Giurisprudenza di Legittimità è concorde nel ritenere che la diffusione di un messaggio diffamatorio pubblicato sulla bacheca di Facebook, ovvero sulla piattaforma Instagram -ad esempio, nelle modalità di commento ad una foto- integra l’ipotesi di diffamazione aggravata, ai sensi dell’art. 595, comma terzo, c.p., sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista • Avv. Claudia Piroddu, Penalista

La potenziale offesa insita nel commento, infatti, è senza dubbio capace di raggiungere un numero indeterminato di persone -quale elemento costitutivo della fattispecie in esame- e, pertanto, è evidente che colui il quale abbia coscientemente e volontariamente “postato” il commento diffamatorio sarà chiamato a rispondere del reato di diffamazione aggravata poc’anzi menzionato.

Dette condotte sono state perfino sottoposte anche al vaglio della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la quale, come affermato in un caso recente, ha confermato che integra una violazione dell’articolo 8 della Cedu -che tutela il diritto al rispetto della vita privata, incluso quello alla reputazione- la pubblicazione di un’immagine manipolata sul social network Instagram.

I giudici, nel caso di specie, hanno superato i confini “classici” della diffamazione -intesa quale offesa di carattere verbale- affermando che la tutela della reputazione va assicurata anche a chi subisce accuse diffamatorie su Instagram sotto forma di manipolazione di un’immagine.

Ma la complessità del fenomeno della diffamazione a mezzo internet fa sorgere un ulteriore ed inevitabile quesito: in questi casi, è possibile ascrivere una responsabilità anche al cd. “provider”, ossia il prestatore di servizio della società dell’informazione?

Difatti, sebbene questi siano certamente responsabili degli illeciti posti in essere in prima persona, il problema sorge, allorquando, l’illecito venga commesso da soggetti terzi, in quanto l’ordinamento penale italiano non prevede una responsabilità per fatto altrui.

La normativa di riferimento è contenuta nel D. Lgs. del 9 aprile 2003 n. 70, emanato in attuazione della Direttiva europea sul commercio elettronico 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico.

Dalla lettura della normativa in esame, si evince l’assenza di un obbligo generale di sorveglianza ex ante per i providers i quali, ai sensi dell’art. 17 del menzionato decreto, sono sollevati da un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano; né grava sui medesimi un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite.

In tal senso, l’art. 14 della Direttiva non lascia spazio ad alcun dubbio: “Gli Stati membri provvedono affinché, nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non sia responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: a) non sia effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione, o b) non appena al corrente di tali fatti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso“.

Ebbene, l’eventuale mancata collaborazione con le autorità potrebbe, infatti, comportare non solo il riconoscimento di una responsabilità civile in capo ai medesimi degli eventuali danni cagionati dalla sussistenza e mancata rimozione dell’illecito ma, altresì, delle conseguenze da un punto di vista del diritto penale.

Sul punto, la più recente giurisprudenza di legittimità, ha affermato che: “risponde a titolo di concorso nel delitto di diffamazione commesso da terzi il gestore di un sito internet che, venuto a conoscenza dell’esistenza di un articolo diffamatorio pubblicato da altri, mantiene consapevolmente tale contenuto sul sito, consentendo che lo stesso eserciti la sua efficacia diffamatoria” (Cass. pen., sez. V, n. 54946/2016). Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista • Avv. Claudia Piroddu, Penalista

Quanto, invece, alla figura del blogger -nonostante la stessa risulti distinta da quella del provider, poiché l’amministratore del blog si limita a mettere a disposizione uno spazio virtuale in cui gli utenti possono interagire con la pubblicazione di commenti- è stata delineata una responsabilità, per certi versi, assimilabile a quella finora esaminata.

Partendo dal presupposto che non vi è una norma che prevede in capo al blogger degli appositi obblighi impeditivi di eventi offensivi riguardanti l’altrui reputazione, tuttavia, il blogger che non si attiva tempestivamente per rimuovere commenti offensivi pubblicati da terzi sul suo blog commette anch’egli il reato di diffamazione.

Infatti, secondo l’indirizzo giurisprudenziale più recente, la predetta condotta è equiparata non già al mancato impedimento dell’evento diffamatorio, bensì ad una vera e propria condivisione consapevole del contenuto lesivo dell’altrui reputazione anche da parte del gestore del blog, che, non provvedendo alla rimozione del post offensivo, ne ha consentito un’ulteriore divulgazione.

In conclusione, l’esigenza di tutelare la vittima per i danni alla propria immagine e reputazione, hanno fatto giungere la quasi totalità degli ordinamenti alla conclusione di attribuire, oltre che al singolo, anche al service provider o al blogger la responsabilità per illeciti derivanti dal materiale immesso e non rimosso o dalle dichiarazioni effettuate dagli internauti in spazi virtuali a questi messi a disposizione e gestiti dai primi.

Eleonora PintusClaudia Piroddu, Avvocati

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