Le aree marine protette: criticità e tutela penale

Domani, 8 giugno, si celebra la giornata mondiale degli Oceani, il cui tema è l’oceano come “fonte di vita e sostentamento”.

Questa giornata si colloca, in realtà, in un contesto ben più ampio poiché lo scorso primo giugno è stato inaugurato dalle Nazioni Unite e dall’UNESCO, con la Commissione Internazionale Oceanografica, il “Decennio delle Scienze Marine per lo Sviluppo Sostenibile degli Oceani e dei Mari”, con lo scopo di promuovere soluzioni a livello globale per proteggere gli oceani e le loro risorse.

Come sappiamo, gli oceani ed i mari svolgono un ruolo fondamentale nel nostro pianeta, in quanto non solo ospitano degli ecosistemi importantissimi per la biodiversità ma contribuiscono alla regolazione del clima: infatti, sulla base di studi recenti è emerso che oceani e mari assorbano mille volte più calore dell’atmosfera e che, fino ad oggi, abbiano trattenuto il 90% dell’energia in più derivante dall’incremento dei gas serra dovuti all’azione umana.

Come abbiamo già visto nell’articolo precedente, in Italia, il 26 febbraio scorso è nato ufficialmente il Ministero della Transizione ecologica (cosiddetto “MiTE”) che, tra gli altri obiettivi, si pone quello di tutelare la biodiversità, gli ecosistemi ed il patrimonio marino-costiero nonché salvaguardare il territorio e le acque.

A tale ultimo proposito, giova ricordare che, a partire dagli anni ’80, sono state istituite le aree marine protette (cosiddette “AMP”), ovvero quegli ambienti marini dati dalle acque, dai fondali e dai tratti di costa prospicenti, che presentano un rilevante interesse per le loro caratteristiche naturali, geomorfologiche, fisiche, biochimiche con particolare riguardo alla flora e alla fauna marine e costiere.

La Sardegna vanta cinque aree marine protette: in particolare, l’isola di Mal di Ventre, nella penisola del Sinis, è stata istituita alla fine degli anni ‘90 con l’obiettivo di tutelare e valorizzare l’ambiente marino e costiero all’interno dell’area delimitata e, altresì, di amministrare le attività sostenibili in esso consentite. Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Viola Zuddas, Civilista

Peraltro, l’area marina protetta Penisola del Sinis – Isola di Mal di Ventre è stata inserita tra le dieci AMP italiane, alle quali è riconosciuto lo status di ASPIM (Aree Speciali Protette di Importanza Mediterranea), grazie al quale viene adottato un approccio internazionale di cooperazione per la gestione, conservazione e protezione delle specie protette, nonché una costante attività di monitoraggio e salvaguardia delle stesse.

Ebbene, le aree marine protette sono state istituite con le Leggi n. 979/1982 e n. 394/1991 che, ancora oggi, costituiscono lo strumento giuridico principale per garantire la gestione, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale e archeologico di zone marittime e costiere circoscritte che, per conformazione e caratteristiche, sono considerate particolarmente vulnerabili e, pertanto, meritevoli di specifica protezione.

Le aree marine protette rientrano, infatti, nella nozione di “aree naturali protette”, tra le quali figurano, altresì, i parchi e le riserve naturali nazionali e regionali, le zone umide di importanza internazionale, i siti della Rete Natura 2000 e le altre aree naturali protette cd. minori.

Invero, secondo l’orientamento giurisprudenziale maggioritario (si veda, nella specie, Cass. pen., sez. III, 1 aprile 2014, n. 14950), l’elenco contenuto nella normativa di riferimento non è da intendersi tassativo e immutabile, bensì uno strumento aggiornabile nel corso del tempo.

Istituite con Decreto Ministeriale, le aree marine protette sono suddivise in tre differenti livelli di protezione in relazione alla zona in cui ci si trova e, precisamente:

Zona A o riserva marina integrale: è l’area di maggior valore ambientale; in essa sono consentite in genere unicamente le attività di ricerca scientifica e le attività di servizio,
Zona B o riserva marina generale: in essa è consentito il compimento di alcune attività che devono comunque assicurare un basso impatto sull’ecosistema,
Zona C o riserva marina parziale: in essa è consentito il compimento di alcune attività che devono comunque assicurare un modesto impatto sull’ecosistema.

La gestione delle AMP è affidata ad enti pubblici, istituzioni scientifiche o associazioni ambientaliste riconosciute, anche consorziati tra loro, ma il Ministero dell’Ambiente partecipa ai relativi oneri di spesa, mediante un sistema di riparto.

Peraltro, proprio l’aspetto gestionale ed economico -spesso lasciato ai Comuni interessati- rappresenta, a dire delle associazioni ambientaliste, il punto più debole della disciplina di settore.

Infatti, è da diversi anni che viene invocata una riforma organica della legislazione sulle aree protette, sul presupposto della mancanza di un approccio unitario che, operando sia a livello nazionale che europeo, consenta di creare un coordinamento e una programmazione efficace, garantendo il pieno coinvolgimento anche della collettività locale.

La tutela e i divieti

La già citata Legge quadro n. 394 del 1991 ha anticipato l’emanazione della Direttiva comunitaria 92/43/CEE, con la quale è stata creata una rete ecologica di zone speciali protette –denominata “Natura 2000”- finalizzata all’istituzione di un sistema generale di protezione di talune specie di flora e fauna, attraverso l’introduzione di specifici divieti.

In particolare, l’art. 19, co. 3, della L. 394/91, tutt’ora in vigore, individua un elenco di attività vietate nelle AMP, tra le quali figurano: la cattura, la raccolta e il danneggiamento delle specie animali e vegetali; l’introduzione di armi, esplosivi e di ogni altro mezzo distruttivo e di cattura, nonché la navigazione a motore e ogni forma di discarica di rifiuti solidi e liquidi.

Ad essere punite, quindi, non sono soltanto quelle condotte concretamente e immediatamente lesive del patrimonio ambientale, come ad esempio la pesca o il danneggiamento, ma anche condotte che, sulla base di un accertamento presuntivo, risultano suscettibili di mettere in pericolo il bene ambiente, come ad esempio la navigazione a motore o l’introduzione nell’AMP di armi ed esplosivi.

In altre parole, è stata disposta una tutela anticipata che arretra la soglia di punibilità e sanziona anche quelle condotte prodromiche al danno ambientale, cioè potenzialmente capaci di cagionarlo e, quindi, vietate a prescindere dall’effettivo verificarsi dello stesso. Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Viola Zuddas, Civilista

Per chiarire meglio la portata applicativa della legge italiana, può essere utile fare un esempio pratico, richiamando la sentenza n. 6726 del 12 febbraio 2018, con la quale la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla fattispecie di illecita effettuazione di attività di pesca subacquea all’interno dell’area marina protetta.

La vicenda approdata dinnanzi ai Supremi Giudici aveva ad oggetto due imputati che erano stati sorpresi nei pressi di alcune imbarcazioni di loro proprietà e, in particolare, uno di essi era stato rinvenuto in acqua, mentre imbracciava un fucile da caccia subacqueo.

Sebbene all’interno dell’imbarcazione di quest’ultimo, al momento dell’accertamento, non fosse stato rinvenuto il pescato, la Corte di legittimità ha comunque ritenuto configurata la fattispecie di cui all’art. 19, co. 3, lett. a) della L. n. 394/91, ossia “la cattura, la raccolta e il danneggiamento delle specie animali e vegetali”.

Infatti, alla luce di quanto detto finora, perché risulti integrata la contravvenzione in parola non occorrerebbe la concreta verificazione del danno.

Ritenuto, da un lato, che l’elenco delle condotte vietate non debba intendersi in maniera assoluta e tassativa, ma un’esemplificazione di comportamenti che il Legislatore intende impedire e, dall’altro, che sussiste un’anticipazione della soglia di punibilità, sarebbe sufficiente il compimento di condotte che risultano comunque idonee e strumentali alla compromissione del bene giuridico protetto.

Pertanto, il fatto stesso che l’imputato sia stato colto in acqua e con il fucile da caccia –il cui porto all’interno dell’AMP risulta comunque vietato, ai sensi del già citato art. 19, co. 3, lett. d), della Legge quadro- è elemento dirimente per ritenere che il medesimo fosse intento a compiere nell’AMP attività di pesca subacquea, che risulta vietata e, perciò, punibile.

Ad ogni modo, è solo attraverso un efficace e costante sistema di monitoraggio e controllo del territorio che è possibile garantire l’effettiva tutela delle AMP, ciò anche in funzione preventiva e come deterrente per tutte quelle condotte lesive del bene protetto.

Claudia PirodduViola Zuddas, Avvocati

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