Nei giorni scorsi hanno destato molto clamore gli arresti e le misure cautelari disposte dal GIP del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere nei confronti dei 144 agenti della polizia penitenziaria coinvolti nelle brutali violenze avvenute nella casa circondariale “Francesco Uccella“, ai danni di numerosi detenuti, tra cui anche un disabile con ridotta capacità di movimento.
Tali fatti si erano verificati il 6 aprile 2020, in occasione delle proteste organizzate dai detenuti delle diverse strutture carcerarie della penisola, innescatesi a seguito delle forti restrizioni imposte per contrastare l’epidemia Covid-19.
Pur a fronte di un eloquente filmato registrato all’interno del carcere campano che ritrae alcune delle condotte contestate agli odierni indagati, non v’è dubbio che si tratti di una vicenda ancora in corso di indagini, per la quale dovrà, dunque, attendersi l’esito dell’iter giudiziario per accertare le varie responsabilità di natura penale e disciplinare.
Tuttavia, quanto accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, per le modalità delle condotte, nonché per la qualifica di pubblici ufficiali rivestita dagli autori delle stesse, per certi versi, ricorda il violento pestaggio avvenuto la sera del 21 luglio 2001, durante il G8 di Genova, nella tristemente nota Scuola Diaz.
Dal momento che si era trattato di atti degradanti e connotati da particolare crudeltà, su più fronti, si parlò di una vera e propria “tortura di Stato” messa in atto nei confronti dei malcapitati manifestanti.
Eppure, in quel preciso momento storico, l’ordinamento penale italiano non prevedeva una fattispecie di reato ad hoc; pertanto, i dirigenti, i funzionari e gli agenti di polizia coinvolti vennero processati, oltre che per falso ideologico e abuso d’ufficio, per reati minori come lesioni e percosse, puniti, quindi, con pene lievi.
In conseguenza dei fatti accaduti durante il G8 di Genova, con la sentenza del 7 aprile 2015 (Caso Cestaro c/ Italia), lo Stato italiano venne condannato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, affermando che quanto compiuto dalle forze dell’ordine italiane nell’irruzione alla Diaz dovesse essere qualificato come “tortura”, ha sanzionato l’inadeguatezza e l’incapacità dell’ordinamento italiano a prevenire e reprimere proprio i reati di tortura, in violazione dell’art. 3 della CEDU. Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Eleonora Pintus, Penalista, Internazionalista
Cosa si intende per “reato di tortura”?
Tra i numerosi atti internazionali dei quali l’Italia risulta firmataria che vietano gli atti di tortura – o, comunque, trattamenti inumani e degradanti – occorre menzionare la Convenzione ONU del 1984, ratificata dall’Italia con la Legge n. 498 del 1988, con l’obbligo di legiferare in merito, che definisce come tortura “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti … al fine di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla, intimorirla o far pressione su si lei … qualora siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale“.
Peraltro, anche la Costituzione italiana prevede nell’art. 13, comma 4, un obbligo di repressione dei fatti di violenza commessi nei confronti di persone sottoposte a restrizioni di libertà.
Nonostante ciò, solo a seguito di un tortuoso e lungo iter parlamentare conclusosi con la Legge n. 110 del 2017 si è giunti all’introduzione nel codice penale dei reati di tortura e di istigazione alla tortura, previsti rispettivamente negli articoli 613 bis e 613 ter c.p., collocati nel Titolo XII del codice penale, riguardante i delitti contro la persona e contro la libertà morale.
Nella specie, l’art. 613 bis c.p. punisce con la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, vigilanza, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, qualora il fatto è commesso mediante più condotte o se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.
Al secondo comma dell’art. 613 bis c.p. è prevista una specifica ipotesi -punita più severamente con la pena della reclusione da 5 a 12 anni- che ricorre allorquando gli atti di tortura siano perpetrati dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio, con abuso di poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio. Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Eleonora Pintus, Penalista, Internazionalista
Restano, invece, esclusi dall’ambito della fattispecie gli atti compiuti nell’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti, quindi, la disposizione non pregiudica in alcun modo l’intervento delle forze dell’ordine che operino legittimamente.
A ben vedere, quindi, la normativa penale interna ha recepito solo parzialmente il dettato della Convenzione ONU contro la tortura.
La differenza più evidente riguarda proprio la connotazione della fattispecie de qua sia come reato comune che può essere commesso da chiunque a prescindere dalla qualifica rivestita –ipotesi, quest’ultima, contemplata solo dall’ordinamento italiano- e sia come reato proprio, realizzato dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio.
Come vedremo a breve, la distinzione non è di poco conto e si riverbera sull’individuazione della natura del reato commesso dal soggetto qualificato, classificabile per taluni come reato autonomo e in altri casi come mera circostanza aggravante.
La più recente giurisprudenza sul reato di tortura
Al momento, vi sono diverse pronunce di merito e di legittimità che risultano senz’altro utili per delineare l’ambito di applicabilità del reato di tortura e per individuarne in maniera precisa gli elementi costitutivi.
A tale riguardo, pare opportuno segnalare la pronuncia n. 47079 dell’8 luglio 2019, con la quale la Corte di Cassazione si è espressa a seguito del ricorso proposto avverso l’ordinanza del Tribunale della Libertà dei Minori di Taranto, in ordine alle violenze commesse da un gruppo di giovani ai danni di un anziano disabile nel Comune di Manduria.
Nell’occasione, i Supremi Giudici hanno evidenziato che il bene giuridico protetto dalla norma in esame deve individuarsi nella “libertà morale o psichica, comunemente intesa come diritto dell’individuo di autodeterminarsi liberamente, in assenza di coercizioni psichiche“.
Si tratta, altresì, di un reato eventualmente abituale che si configura anche in presenza di due sole condotte poste in essere in un minimo lasso temporale, purché siano connotate da violenze esercitate sulle persone o sulle cose e minacce gravi, tali cioè da cagionare a chi le subisce un trauma psichico.
È stato precisato, inoltre, che la scelta del Legislatore italiano di identificare la tortura come reato realizzabile anche dal privato risulti più conforme alla realtà criminologica italiana e soprattutto consenta di fornire una nozione più ampia di tortura, consistente nel cagionare ad un soggetto indifeso intense sofferenze a prescindere dalla qualifica soggettiva dell’autore della condotta. Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Eleonora Pintus, Penalista, Internazionalista
Tuttavia, proprio in merito alla qualifica rivestita dall’autore del reato, si è originato un interessante contrasto giurisprudenziale.
Invero, un primo indirizzo considera il reato di tortura commesso dal pubblico ufficiale come una mera circostanza aggravante della fattispecie comune prevista nel primo comma dell’art. 613 bis c.p., mentre un secondo orientamento connota tale ipotesi come fattispecie autonoma, in virtù del maggiore disvalore degli atti di tortura posti in essere dal soggetto preposto a garantire il rispetto della sicurezza e dei diritti della persona.
Del resto, non può trascurarsi che, qualora la condotta venisse qualificata come reato circostanziato, verrebbe vanificata la portata punitiva della norma, laddove, attraverso il meccanismo di bilanciamento delle circostanze di cui all’art. 69 c.p., sarebbe astrattamente possibile ridurre drasticamente la pena applicabile.
In tal senso, si può comprendere la portata della recentissima sentenza pronunciata il 17 febbraio 2021 dal GUP di Siena, in merito ai fatti di tortura commessi nel carcere di San Gimignano da parte di dieci agenti penitenziari nei confronti di un detenuto tunisino.
Nell’occasione, il Giudice di prime cure, proprio sulla base delle argomentazioni poc’anzi richiamate, ha specificato che la cd. tortura di stato, ovvero quella realizzata dalle forze dell’ordine, sia da considerarsi a tutti gli effetti una fattispecie autonoma di reato e, come tale, deve essere punita più severamente rispetto ai fatti commessi dal privato.
Solo in questo modo, infatti, il reato assumerebbe una connotazione più vicina a quella contenuta nella Convenzione ONU e garantirebbe una risposta punitiva più decisa dinnanzi a tali fatti gravissimi, finora rimasti per lo più nell’ombra, benché, purtroppo, sempre più frequenti.