Coltivazione di Cannabis light: cosa succede in Sardegna?

Da alcuni anni, anche in Sardegna, si assiste al notevole incremento della coltivazione di canapa sativa -comunemente definita cannabis light o canapa legale-, grazie soprattutto alla molteplicità dei suoi impieghi, principalmente nel settore industriale, e alla capacità di questo tipo di coltivazione di ridurre l’impatto ambientale e la perdita della biodiversità.

Al fine di regolamentare la materia e di prevedere adeguati incentivi per promuovere la filiera della canapa, con la Legge 2 dicembre 2016 n. 242, il legislatore italiano ha adottato una serie di misure volte a individuare i requisiti e i limiti della coltivazione.

Tuttavia, sebbene da un lato la coltivazione di canapa sativa risulti lecita, dall’altro lato non può trascurarsi che nel corso degli ultimi mesi, sul territorio sardo e in particolare nell’oristanese, si siano verificati molteplici sequestri di ingenti quantitativi di canapa light a carico di imprenditori e coltivatori, con l’accusa di detenzione di stupefacente a fini di spaccio.

Quindi, quali sono i requisiti previsti dalla Legge e in quali ipotesi tali condotte assumono rilevanza penale?

Innanzi tutto, occorre chiarire che la cannabis sativa è una particolare varietà di canapa che, diversamente dalla cannabis indica e dalla cannabis ruderalis, con la Direttiva 2002/53/CE, è stata inserita nel catalogo comune delle specie di piante agricole, la cui coltivazione risulta liberamente consentita.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Invero, ai sensi dell’art. 2 della L. n. 242/2016 citata poc’anzi, la coltivazione di canapa sativa non necessita il previo rilascio di particolari autorizzazioni di carattere amministrativo e il coltivatore è tenuto semplicemente a conservare per 12 mesi i cartellini delle sementi acquistate e le relative fatture di acquisto.

È richiesto, però, che il contenuto di THC -ossia il principio attivo in grado di produrre un effetto psicotropo e, quindi, drogante- sia inferiore allo 0,2 %, con un limite di tolleranza fissato allo 0,6%.

Inoltre, affinché l’attività di coltivazione e trasformazione venga considerata lecita, la norma elenca ulteriormente i prodotti che è possibile ottenere mediante la lavorazione della canapa sativa e a cui la stessa deve essere destinata.

Ne consegue che la canapa coltivata non può essere utilizzata liberamente, ma dalla stessa è possibile ottenere soltanto:

  • alimenti e cosmetici;
  • semilavorati, come fibre, oli e carburanti, per forniture alle industrie;
  • materiale destinato alla pratica del sovescio;
  • materiale organico destinato al settore della bio ingegneria e bioedilizia;
  • materiale utilizzabile per la bonifica di siti inquinati;
  • coltivazioni dedicate alle attività didattiche e di ricerca, nonché destinate al florovivaismo.

Tuttavia, proprio dalla formulazione poco chiara e fin troppo generica della norma sono sorti numerosi dubbi interpretativi, in particolare per quanto riguarda la commercializzazione di canapa sativa proveniente da coltivazioni lecite.

Verrebbe da pensare, infatti, che trattandosi di cannabis light, e quindi legale, la vendita sia considerata parimenti lecita, eppure così non è.

Il contrasto giurisprudenziale e l’intervento delle Sezioni Unite

Il nodo della questione riguarda l’ammissibilità o meno della vendita al pubblico di foglie, infiorescenze, olio e resina derivanti dalla coltivazione di cannabis sativa.

Da un lato, infatti, si colloca un primo indirizzo giurisprudenziale minoritario che tiene conto esclusivamente della capacità o meno del prodotto di produrre effetti psicotropi, individuata nella soglia dello 0.6% di THC (si veda, Cass. pen., sez. VI, sent. n. 4920 del 2018).

Pertanto, la vendita di derivati della canapa sativa risulterebbe lecita, a condizione che tali prodotti contengano un principio attivo collocato entro la cd. soglia drogante fissata dalla Legge, posto che, in applicazione del principio penale di offensività, l’assenza di effetti psicotropi esclude qualsivoglia pericolo per la sicurezza, la salute e l’ordine pubblico.

All’evidenza, quindi, benché la L. n. 242/2016 tra le attività consentite menzioni solamente la coltivazione e la trasformazione della canapa sativa, tuttavia, la norma non vieta espressamente la commercializzazione, che, pertanto, deve considerarsi ammissibile nel rispetto dei limiti anzidetti.

Dall’altro lato, vi è un diverso e più rigoroso orientamento, fatto proprio anche dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 30475 del 2019, che tiene conto del solo dato letterale della norma.

Invero, la Legge in parola stabilisce la liceità della coltivazione della cannabis sativa per le sole finalità tassativamente elencate nella stessa, tra le quali non figura la commercializzazione dei prodotti derivati.

Ne consegue che la detenzione, nonché la vendita al pubblico di infiorescenze, resine e oli integra il reato di cui all’art. 73 del D.P.R. n. 309/90, anche a fronte di un contenuto di THC inferiore alla soglia drogante prevista per Legge, salvo che tali derivati siano in concreto privi di ogni efficacia psicotropa.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Lo stesso principio risulta applicabile anche con riferimento all’impiego della canapa sativa negli alimenti, nella misura in cui tra le finalità indicate espressamente dalla L. n. 242/2016 figura anche quella alimentare.

Ciò, però, non significa che la pianta possa essere utilizzata interamente o senza alcuna distinzione, ad esempio per produrre infusi, tisane, pasta, biscotti e così via.

Infatti, con apposito provvedimento il Ministero della Salute, nell’indicare tassativamente i livelli massimi di THC ammissibili negli alimenti, ha stabilito che l’unica parte della pianta di canapa che può essere utilizzata a fini alimentari sono i semi, quindi, con esclusione delle infiorescenze, il cui impiego risulta illecito e sanzionabile penalmente.

In definitiva, la Legge italiana non prevede la possibilità in capo al coltivatore di effettuare alcuna attività di lavorazione delle piante di canapa sativa e, di conseguenza, l’essicazione, la sbocciolatura, il trasporto o la vendita al dettaglio sono considerate condotte illecite, in quanto rientranti nella nozione di “commercializzazione”, e quindi punibili in applicazione della disciplina in materia di traffico di stupefacenti.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Come si immagina, tale conclusione determina una serie di ripercussioni, anche sotto il profilo economico, posto che il coltivatore, impossibilitato a svolgere lecitamente qualsivoglia lavorazione della canapa, si vedrà costretto a cedere a terzi il prodotto “grezzo”, ovviamente a un prezzo notevolmente inferiore.

Per questa ragione, stante l’assenza di un effettivo pericolo per la salute e l’ordine pubblico legato alla commercializzazione della canapa sativa, in quanto priva di effetto drogante, le associazioni di categoria e i coltivatori invocano con urgenza un intervento normativo che, anche a livello regionale, possa colmare i vuoti lasciati dalla L. n. 242/2016, consentendo così di incentivare la filiera della canapa e di dare nuovo impulso all’economia sarda.

Claudia Piroddu, Avvocato

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